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Inviato da avatar Riccardo De Benedetti il 25-05-2017 alle 10:27

L’intervento di Gianluca Gennai è molto chiaro e circostanziato. Parte però da un presupposto che non è più tale, cioè non fa più parte di quel comune sentire che dovrebbe essere la base sul quale poi si costruiscono le differenti visioni dei problemi e le loro soluzioni. 

È evidente che nella nostra città prima della frattura tra gli schieramenti politici, è all’opera una faglia culturale profonda e non credo più componibile. Riguarda i motivi stessi per i quali possiamo considerarci membri e partecipanti di una medesima comunità civile.  

Da una parte c’è chi acconsente e auspica l’ibridazione sociale attraverso l’immissione nel tessuto sociale di persone di altre culture in grado, per il solo fatto di essere diverse, di rivitalizzare e rimodellare la metropoli considerata, per definizione, il luogo in cui trasformazioni e mutamenti trovano il punto di maggiore espressione.  

Le priorità di questa ibridazione non sono quelle della sicurezza e della legalità, sono altre e riguardano la produttività, il costo del lavoro, la rendita fondiaria garantita dall’afflusso costante di nuove persone ecc., tutte cose che si considerano avere la priorità su altre. La sicurezza, le garanzie di miglioramento sociale per coloro che nati o vissuti a Milano o sono in pensione o si affacciano dopo gli studi al mondo del lavoro non sono contemplate, o non sono prioritarie e vanno sempre commisurate non un’emergenza ma a ciò che si considera, l’immigrazione, come il dato di fatto, ineliminabile e necessario della nuova Milano. 

Dall’altra i ritardatari, coloro che per cultura, ceto sociale, storie politiche non si ritrovano in questa nuova dimensione, che la ritengono fortemente penalizzante della propria condizione di vita, di sicurezza e di promozione sociale. Sono coloro che hanno dato con il loro lavoro la possibilità di sviluppo di Milano. I nuovi venuti minacciano il loro status già precario, ora ancor più.

Costoro vedono con lungimiranza e senso pratico una cosa che i primi non vogliono vedere. Vale a dire che l’integrazione tanto sbandierata non solo non è l’obiettivo della nuova immigrazione, ma gli stessi processi che la governano in fondo non ne hanno necessità, perché sono promossi da esigenze che non sono produttive in senso stretto (oggi non si aprono fabbriche a Milano!) ma quasi esclusivamente simboliche.

Diciamo che ai ritardatari appare chiaro che la parte dirigente della città, i ceti che non possono più essere chiamati produttivi ma di servizi, di intermediazione finanziaria, di rendita patrimoniale, hanno bisogno di una mobilità costante e turbolenta nella quale poter esercitare una sorta di governo non-governo nella quale la differenza culturale viene scaricata sui più deboli come una necessità che porterà loro sì ad integrarsi ma verso il basso, verso standard comportamentali e sociali notevolmente degradati e al di sotto di ciò che erano le aspettative di miglioramento che una vita di lavoro e di studio lasciavano immaginare.

La condizione dei quartieri popolari è sotto gli occhi di tutti: sono i residenti prima della massiccia immigrazione che ormai devono integrarsi, non i nuovi. E il discorso non riguarda solo i nordafricani ma credo tutte le etnie, seppure in misura e modi diversi. 

Nelle metropoli moderne, ne fanno fede decine di libri che ne hanno mostrato la dinamica profonda, c’è il respiro di un movimento profondo e dissolutore dei vecchi ordini culturali prima ancora che produttivi che non ha alcun riguardo e rispetto per ciò che lo ha preceduto. Penso alla New York del dopoguerra descritta da Marshall Berman in un libro del 1982: «L'esperienza della modernità». Questa dinamica, se vuole affermarsi e diventare un’opportunità di crescita che non sarà mai per tutti ma solo per i più scaltri e furbi, non ha alcun bisogno di sicurezza e legalità. (Nota per coloro che si ritengono di sinistra: è la dinamica del capitalismo più puro e più originario!). 

A scala ridotta, ma percentualmente significativa, è ciò che sta accadendo a Milano. I refrattari sono destinati ad essere spazzati via, con le buone o con le cattive. Con le buone se sapranno subire i costi dell’immigrazione, perché per loro sono costi non opportunità, costi sociali incalcolabili.

Con le cattive attraverso lo stigma del razzismo e della riprovazione morale alla quale la loro resistenza verrà accostata. Questa è la realtà. Il resto è materia per professori di sociologia, cattivi filosofi dell’Alterità (ci sono però anche i buoni) che hanno perso del tutto il contatto con la realtà ecc.

Mi scuso per la lunghezza.

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