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Inviato da avatar Paola Bocci il 02-07-2017 alle 18:30
Caro Gianluca,
per prima cosa ti ringrazio dell'attenzione che hai dedicato alla mia riflessione. 
Il nostro mondo in continua trasformazione richiede che la cultura diventi sempre più protagonista nella rigenerazione delle nostre città, attraverso la chiave culturale si possono reinterpretare processi di cambiamento, per strutturare conseguenti politiche di riqualificazione e sviluppo. Comincio con l'approfondire quello che tu chiami mancanza di visione.
E qui voglio dire che la visione c'è, è chiara e risiede già nel titolo stesso dell'articolo di Arcipelago: il futuro sta nelle periferie.  
Questo è ciò che noi amministratori dobbiamo comprendere con chiarezza e lungimiranza. Per rigenerare le nostre città  da lì dobbiamo partire e per quei territori dobbiamo trovare strumenti nuovi ed efficaci, capaci di tenere insieme aspetti compositi dell'abitare e dell'essere comunità. 
Non solo strade, case, trasporti - e la loro buona qualità - devono essere gli elementi su cui intervenire, perché non sono gli unici a caratterizzare il tessuto urbano e la qualità della vita. 
Non ho mai fatto mistero della mia insofferenza alla parola 'periferie', termine indistinto, generico, utilizzato spesso in modo dispregiativo, per segnare una condizione di difetto e sudditanza. 
Penso che le cose debbano essere chiamate con il loro nome, quando lo hanno. 
Le periferie urbane sono quartieri con nomi precisi a cui chi ci abita è affezionato e attribuisce significato e appartenenza (Biondillo lo ricorda sempre). 
Le aree di cui dobbiamo occuparci con maggiore cura non sono poi esclusivamente quelle lontane dai centri storici, cioè dai luoghi tradizionali di gravità permanente dove abbiamo fatto succedere le cose.  Lo sguardo deve allargarsi  e la politica di rigenerazione deve comprendere l'urbano e il non urbano, a quelle che vengono chiamate aree interne, e ancora a quei brandelli di centri storici che, anche  per condizioni indipendenti dalla buona o cattiva amministrazione, sono rimasti esclusi dai processi di sviluppo e di riqualificazione. 
Quando non ci riferiamo a un territorio preciso abbiamo bisogno di ripensare nuovi termini, perché non è più sufficiente definire questi luoghi solamente attraverso un concetto di distanza e di lontananza da qualcos'altro, ma occorre dare a questi territori la dignità degli altri. 
Abbiamo bisogno di parole e concetti che esprimano qualità più che quantità,  abbracciando più contenuti. La parola "poliferie", coniata da Maurizio Carta al convegno, ha secondo me questa capacità evocativa e simbolica di richiamare la loro potenzialità di costruire città e la loro capacità di produrre una varia molteplicità di esperienze. 
In alcuni casi esperienze frammentarie e frastagliate, che devono essere tenute insieme individuando obiettivi, processi e politiche collettive, con investimenti costanti nel tempo.
Non condivido la tua nota critica e la tua interpretazione di una gestione episodica del fattore cultura, perché in molti luoghi si comincia a pensare a sistema. O perlomeno si ha la consapevolezza che in questa direzione bisogna muoversi. 
La visione comune sottesa a chi ha partecipato al convegno, e a chi a Milano e in altri luoghi si sta impegnando in processi di rigenerazione del territorio, è molto lontana dall'interpretare le 'periferie' come aree destinate a diventare gli eventifici del futuro. 
Vorremmo invece portare una  nuova visione che contrasta con la logica perdente - utilizzata nel passato anche a Milano e senza molta distinzione tra centro e periferia -  della cultura  come elemento di azione estemporaneo ed effimero, e per questo incapace di rigenerare davvero territori e consolidare comunità. 
La cultura è insieme infrastruttura trasversale ai settori diversi dell'agire politico e amministrativo e condizione necessaria alla formazione di nuove risorse umane amministrative e politiche, o alla rigenerazione e rimotivazione di quelle esistenti.
Questa è premessa però, e non basta. 
Quello che è rivoluzionario è pensare che la cultura sia leva e motore di sviluppo, strumento per aumentare qualità della vita è benessere di tutti, nessuno escluso.  
Tanto quanto altri elementi che producono lavoro, sviluppo e benessere. 
Ed è tanto più utile dove in questo momento c'è crisi, disagio sociale e spopolamento. Lì bisogna investire affettivamente ed economicamente, prima in progetti lungimiranti e non episodici, e poi in riqualificazione di edifici e terreni. Non viceversa.

Un caro saluto 
 
Paola Bocci 

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