10 anni fa
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Lo Statuto della Città Metropolitana deve prevedere tutta un’articolata serie di indicazioni, alcune molto operative e funzionali, altre più strategiche. Tra queste ultime vi è l’organizzazione dei rapporti di cooperazione tra i comuni sui temi di governo del territorio e di area vasta, che variano considerevolmente in funzione della modalità elettiva degli organi. Lo Statuto può prevedere che il Sindaco del comune capoluogo sia anche Sindaco della Città Metropolitana, di fatto replicando il modello organizzativo con organi di secondo livello introdotto dalla L 56/2014 per le province e per la fase di avvio della Città Metropolitana. Un modello da molti considerano debole, inadatto al ruolo culturale ed economico che Milano e la sua metropoli vogliono svolgere in Italia e in Europa, dove gli altri comuni rischiano di avere poca voce in capitolo, pur rappresentando il 58 % della popolazione complessiva. In alternativa lo Statuto può prevedere l’elezione diretta di Sindaco e Consiglio, ma a condizione di suddividere il capoluogo in più comuni, oppure di ripartirne il territorio in zone dotate di autonomia amministrativa e di aggregare secondo zone omogenee tutti gli altri comuni.

Ognuno dei due modelli ha elementi a favore e contro, sui quali tuttavia non interessa qui soffermarci. Partiamo dal dato che molti rappresentanti delle istituzioni locali in questi mesi si sono schierati a favore dell’elezione diretta di sindaco e consiglio metropolitano, difendendo la partecipazione al voto dei cittadini nella scelta dei rappresentanti locali. Per dare attuazione a questo indirizzo ci si deve quindi confrontare con una delle due pesanti condizioni alternative poste dalla L 56/2014.

Personalmente non ritengo che sia una buona idea smembrare un comune unitario come Milano in più comuni, con lo scopo di creare organismi più piccoli e quindi una sorta di equilibrio di potere con gli altri comuni metropolitani. Milano ha una riconoscibilità internazionale, e può svolgere, come in effetti già svolge, un effetto di traino nella promozione del territorio metropolitano, e non solo, visto che di tale effetto ne beneficia il resto della Lombardia, ed il Paese nel suo complesso. Si tratta di un patrimonio prezioso che non avrebbe senso rischiare di perdere in un processo di suddivisione, che sarebbe farraginoso e molto lungo, viste le incertezze della legge e la complessità della macchina amministrativa del Comune capoluogo. Tanto più sarebbe insensato in un momento delicato economicamente per il Paese.

Vediamo la seconda alternativa. Molto interessante l’idea di creare zone omogenee nelle quali raccogliere gli altri comuni. Si tratta ovviamente di fissare regole per decidere nello Statuto questioni del tipo: quali modalità seguire (favorendo le diverse forme di associazioni, unioni, o fusioni), come collaborano i comuni all’interno di ciascuna zona e come si raccordano tra loro le zone nella città metropolitana, come le zone si confrontano e decidono sulle questioni importanti (curando che la modalità decisoria sia partecipata, rapida ed efficace). Non sono questioni semplici, sono complesse ed articolate, e lo statuto della Città Metropolitana dovrà dedicare a queste un numero consistente di pagine, a differenza del vigente statuto della Provincia di Milano che esaurisce il tema con un solo articolo dedicato all’istituzione dei circondari (art 6).

Diverso il discorso per le zone dotate di autonomia amministrativa, che se troppo spinte potrebbero portare alla paralisi decisionale del capoluogo, con gli effetti nefasti già sopra delineati. Fortunatamente la L 56/2014, su questo tema come in generale anche sugli altri temi, si limita a delineare uno schema generale ma lascia intenzionalmente agli enti locali una maggiore autonomia nel completare tale schema secondo le proprie necessità, che saranno diverse a Milano rispetto ad altre città metropolitane. Mentre prima gli statuti avevano un’impostazione simile, differenziandosi essenzialmente sugli aspetti più operativi, oggi gli enti hanno gradi di libertà molto più ampi nella autodeterminazione della propria organizzazione, anche sugli aspetti più strategici. Gli statuti futuri saranno tra loro molto diversi, liberi di adeguarsi al meglio alle caratteristiche specifiche di ciascuna città metropolitana. Considerata la libertà concessa, per il capoluogo ci si potrà limitare nello statuto a organizzare i requisiti di autonomia amministrativa al minimo necessario per rispettare almeno nominalmente il requisito di legge. Oppure si potrà cogliere l’occasione, volendo, per decentrare funzioni che meglio possono essere svolte alla scala delle zone e dei quartieri, anche decentrando parte delle relative competenze decisionali e del bilancio. Stando tuttavia bene attenti a non minare l’unitarietà del comune capoluogo e le sue potenzialità.

L’organizzazione degli altri comuni in zone omogenee può essere affrontata da diversi punti di vista; numerosi sono in effetti gli esperti che si stanno cimentando nella definizione di proposte. In questo scritto si propone di partire dalle esperienze pregresse, le quali qualcosa di utile possono insegnarlo, per ispirarsi a quanto ha funzionato, per imparare dagli errori già fatti, e per evitare di sbagliare di nuovo per questioni sulle quali era già in precedenza stata trovata una soluzione. In Lombardia è a tale fine interessante l’esperienza delle conferenze dei comuni, introdotta dalla LR 1/2000, che almeno nei primi anni ha dato risultati utili, realizzando schemi di funzionamento da vera e propria conferenza di servizi a maggioranza per assumere le decisioni sui principali temi di area vasta. La conferenza è stata introdotta dalla legge per esprimere pareri sulla proposta di piano territoriale provinciale prima che questo venga adottato dal Consiglio provinciale. In molte province, come quella di Milano, la conferenza, per volere dei comuni e con la guida della provincia, è diventata tavolo di cooperazione, di governance, sugli aspetti territoriali di area vasta. Un tavolo che per praticità era stato articolato in 12 zone omogenee, chiamati ambiti territoriali di area vasta, per facilitare la discussione dei problemi ad una scala intermedia tra quella comunale e provinciale. Rinviando alle assemblee plenarie della conferenza la ratifica delle decisioni dei singoli tavoli e le questioni che interessino il complesso del territorio provinciale.

A Milano questa prassi di cooperazione interistituzionale ha permesso di assumere decisioni importanti su infrastrutture (come la tangenziale est esterna, la stazione ferroviaria alta velocità della Fiera di Rho-Pero, il secondo passante ferroviario, ecc.), su tutele ambientali e paesaggistiche e controllo delle risorse scarse e non rinnovabili, su localizzazione, dimensionamento e modalità di programmazione dei grandi interventi insediativi. Su questa interessante esperienza ci sarebbero da scrivere molte pagine, per analizzarla in tutti i suoi aspetti e ricavarne tutti gli insegnamenti possibili. Così come sarebbe utile fare un’analisi delle analoghe esperienze sviluppate nelle altre province lombarde. Questo va oltre gli scopi e lo spazio a disposizione di questo scritto, tuttavia interessa qui, partendo proprio da queste esperienze, ed in particolare da quella di Milano, provare a delineare un elenco di spunti su cui riflettere per la definizione delle zone omogenee nello statuto della Città Metropolitana.

  • Guardando ai fattori che hanno determinato il successo dei tavoli di cooperazione della conferenza dei comuni uno è sicuramente la flessibilità. Questo significa evitare la definizione di circondari o comunque di altre forme istituzionali o paraistituzionali dotate di confini amministrativi definiti. Per loro natura le problematiche di area vasta sono a geometria variabile, mutevoli nel tempo. Richiedono geometrie differenziate anche in funzione dei temi trattati. Possono in alcuni casi ammettere anche la parziale sovrapposizione dei confini, con comuni che parteciperanno contemporaneamente a tavoli contigui.

  • Altro fattore di successo è la volontarietà, che significa che i comuni si devono sentire appartenenti all’ambito omogeneo, e questo può accadere solo quando vi aderiscono volontariamente, con piena cognizione della loro decisione. Se l’organizzazione per zone/ambiti è disegnata a tavolino viene percepita come calata dall’alto, e con comuni costretti a convivere spesso la cooperazione finisce per avere vita breve o comunque per non andare molto lontano nei risultati. Lo studio della configurazione ottimale delle zone omogenee fatta a tavolino, sulla base di teorie razionali, può essere di aiuto a comprendere i fenomeni, ma non può andare oltre un disegno convincente solo sulla carta. L’organizzazione per zone dovrebbe partire dalla rilevazione delle forme di collaborazione interistituzionali che già oggi esistono sul territorio, naturalmente di quelle che funzionano e che sono quindi già rodate. Possono essere inseriti correttivi, sulla base di considerazioni più teoriche, ma entro certi limiti e sempre con l’accordo dei comuni interessati.

  • Generalmente in un tavolo di governance che sia già attivo da tempo troviamo due elementi importanti per il consolidamento della cooperazione: un linguaggio comune formatosi con il tempo, e un leader riconosciuto dagli altri che svolge ruolo di traino (spesso il sindaco o assessore di un comune, ma anche altri soggetti come il Presidente di un Parco o di un importante organismo locale). Molto più facile dunque partire, adattandolo, da un tavolo di cooperazione e governance esistente, che formularne di nuovi a tavolino. Un tavolo disegnato ex-novo richiede un periodo di rodaggio piuttosto lungo, di almeno uno-due anni, necessario ai partecipanti per conoscersi e prendere le misure, per trovare un vocabolario comune, e per fare emergere un leader, anche eventualmente passando prima per alcuni tentativi che non vanno a buon fine.

  • Un tavolo di governance oggi deve essere in grado di strutturarsi secondo molteplici configurazioni, per potere affrontare le problematiche sempre più articolate dell’area vasta. Dovrà occuparsi di governance per progetti, per esempio con appositi percorsi a scadenza e finalizzati alla definizione di opere infrastrutturali. Così come dovrà prevedere tavoli di governance tematici, cercando di fare meglio di alcuni esempi del passato su temi come la gestione delle acque o del trasporto pubblico. Dovrà soprattutto organizzare un sistema di governance permanente per le funzioni di area vasta, dove i diversi comuni si confronteranno, secondo regole definite, per fare fronte alle ormai innumerevoli e quasi quotidiane occasioni di confronto sulle numerose problematiche di area vasta che caratterizzano un ambito fortemente urbanizzato, congestionato e inquinato come quello metropolitano.

  • Modalità e regole di funzionamento non sono gli unici aspetti da trattare. Non bisogna dimenticare di definire gli strumenti per fare funzionare questi tavoli e per attuare le decisioni prese. Questo aspetto sarà sviluppato in modo più completo negli strumenti di pianificazione e programmazione previsti dalla legge per la città metropolitana, ma alcuni accenni sulla direzione da intraprendere possono sicuramente essere utili già nello statuto. L’argomento degli strumenti è molto ampio. A titolo esemplificativo si possono ricordare gli strumenti di perequazione territoriale, ossia strumenti in grado di bilanciare tra comuni le ricadute negative (impatti) e positive (in termini di oneri urbanizzativi per esempio) della realizzazione di un grande intervento insediativo o infrastrutturale sul territorio.

 

Nella definizione delle zone omogenee non si deve tenere conto solo dei condizionamenti sopra discussi. Ve ne sono altri, da non dimenticare, per esempio:

  • Secondo la legge l’organizzazione per zone omogenee deve essere soggetta ad intesa con la Regione, la quale non vedrà di buon occhio la nascita di un potere forte nella città metropolitana. Come peraltro notato in passato in occasione dei precedenti tentativi di avviare la città metropolitana.

  • Per l’elezione diretta di Sindaco e Consiglio metropolitano è necessaria una apposita legge elettorale approvata dal Parlamento. Quindi anche il Governo ha una forma di potere di veto o di ostacolo su un’organizzazione di Città metropolitana non gradita.

avatar Marco Pompilio 10 anni fa
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