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Inviato da avatar Simone Sellerio il 25-08-2012 alle 20:30

Ho terminato la lettura dell'interessante libro "Per un'Italia possibile" scritto dall'attuale presidente del FAI Ilaria Borletti Buitoni.

L'apertura del volume è affidata a Francesco Petrarca, dalla lettera “A Cola di Rienzo e al popolo Romano”, Avignone, 1347.
. . . . Coloro per i quali voi avete tante volte sparso il vostro sangue, che avete nutrito con le vostre fatiche e i vostri patrimoni, che a prezzo della pubblica miseria avete elevato a private ricchezze, costoro non vi hanno neppure giudicato degni di essere liberi, e con ripetuti assalti hanno messo insieme nelle loro spelonche e nelle orrende grotte dei loro latrocinii le spoglie lacerate della Repubblica; né li trattenne la vergogna di sapere che i loro delitti erano divulgati presso gli altri popoli, né la pietosa commiserazione della patria infelice, chè anzi, dopo avere empiamente spogliato i templi di Dio, dopo essersi impossessati delle rocche, delle pubbliche ricchezze, dei quartieri della città, e dopo essersi divisi tra loro gli onori delle magistrature – in ciò solo concordi, in questo solo mostruoso delitto; per il resto turbolenti e faziosi, e in tutto discordi nel pensiero e nelle azioni – diedero l’assalto ai ponti, alle mura e persino alle lapidi innocenti. E poi, infine, incrudelirono sui palazzi crollati per vetustà o per violenza, dimore, un tempo, di uomini illustri; poi sugli spezzati archi trionfali che videro forse la rovina dei loro antenati; né si vergognarono di fare vile mercato e turpe guadagno dei frammenti della stessa antichità e della loro propria barbarie. E così ora – dolore, vergogna! – le vostre marmoree colonne, le soglie dei vostri templi cui convenivano devotamente sino a ieri le folle di tutto il mondo, le immagini dei vostri sepolcri sotto i quali riposavano le ossa venerande dei vostri padri, adornano Napoli neghittosa. E taccio il resto. Così a poco a poco le rovine stesse se ne vanno, così se ne vanno ingenti testimonianze della grandezza degli antichi. E voi, tante migliaia di forti, taceste di fronte a pochi ladruncoli che infuriavano in Roma come in una città conquistata; taceste non dico come servi, ma  come pecore, e lasciaste che si facesse strazio delle membra della madre comune. . . . .
. . . . Finalmente mi sembrate desti da un sonno pesante e perciò, se vi tocca vergogna e pentimento delle passate bassezze, state con animo  vigile contro tutte le evenienze; che nessuno dei lupi rapaci che cacciaste dai vostri ovili e che ancora vi si aggira intorno con finti gemiti ed ogni specie di blandizie, penetri con frode là donde venne scacciato con violenza. Se a questo infatti non provvederete non dovete credere che essi riconducano quella fame che si portarono via andandosene: essi ne porteranno una molto più rabbiosa e crudele per il tempo trascorso. Hanno ugualmente sete del sangue del gregge e del pastore e ritengono la vostra libertà e la gloria del vostro liberatore il segno della loro miseria e della loro ignominia. Scattate con fede contro codesti nemici; se voi sarete uniti, essi saranno pochi e spregevoli. . . .
. . . Dove ci sia preveggenza non mancherà coraggio, e neppure verranno meno le forze, e non soltanto per difendere la libertà ma per riconquistare l’Impero. E quanto non servirà la memoria dei tempi antichi e la maestà di un nome caro all’universo? Chi non vorrà augurare prospero successo a quella Roma che rinnova i suoi diritti? Iddio e gli uomini sosterranno una causa così giusta. L’Italia, che languiva con il suo capo reclinato, ecco che già si è levata sul gomito; se persisterete nell’impresa e prevarranno le liete notizie, presto balzerà in piedi intatta e felice. Tutti i galantuomini che ne hanno il modo daranno aiuto; quelli che non avranno la forza aiuteranno con i voti e con le preghiere. I traditori della patria, al contrario, qui morranno del ferro vendicatore e, negl’inferi, pagheranno meritamente il fio della loro colpa con quelle pene che sono loro comminate non soltanto dai nuovi poeti, ma anche dagli antichi. Essi infatti sono coloro che Virgilio rinchiuse in un cerchio di tremendi supplizi. Contro costoro, che più che uomini chiamerò belve, ogni severità è santa, ogni misericordia è inumana. . . . .
. . . . difendendo lo Stato ciascuno difende i suoi beni: il mercante la sicurezza dei traffici; il soldato, la gloria; il contadino, la fertilità dei  campi; gli ecclesiastici, il loro culto; gli intellettuali, i loro studi; i vecchi, la tranquillità dei loro ultimi anni; i fanciulli, la loro formazione intellettuale; le fanciulle, le loro nozze; le matrone, la loro pudicizia; tutti, in una parola, nella patria libera troveranno la loro  gioia. In questo compito dunque, così salutare per la vita pubblica quanto per quella privata, accorrete tutti, cittadini di Roma, con il vostro impegno pubblico e privato; e ogni altra vostra occupazione ceda il passo a questa, perché, se la trascurate, qualsiasi altra cosa facciate, non fate nulla, ma se ad essa vi dedicherete, anche se sembrerà che non facciate nulla, avrete in realtà pienamente adempiuto ai vostri doveri d’uomini e di cittadini. Combattete una sola gara, ma non perché uno sia più potente dell’altro, ma perché sia migliore, più tollerante, più amante della patria; perché sia cittadino più modesto verso i vicini, più ostile ai tiranni. E gareggiate anche con il Tribuno, ma per vedere se sia più prudente lui nell’onesto comando o voi nel pronto ubbidire; e se mai alla vostra unità non bastasse l’amore, che pure a congiungere gli animi è quanto di più efficace vi sia, pensate alla comune utilità; essa vi stringa con vincolo tenace e pacifico, e quelle armi che i padri vi hanno consegnato volgetele soltanto contro i pubblici nemici. Il loro esilio, la loro povertà, il loro supplizio siano le splendide esequie alle ceneri degli avi! A tali eventi le loro ossa esulteranno e certo, se avessero potuto prevederli, essi sarebbero morti con maggior gioia.. . . .

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