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Inviato da avatar Roberto Michele Mazzilli il 16-11-2013 alle 23:25

Io sono sempre un ottimista e do sempre almeno tre chane all'interlocutore. Io gli ho parlato, lo ho accusato al consiglio di zona di essere il responsabile del degrado, l'ho difeso all'Alessandrini, perchè è semplicemente il capro espiatorio di una giunta mai..... arrivata sul problema a Milano.

Il problema è spinoso, ma legalmente si possono espellere i Rom senza lavoro, sostentamento, senza fissa dimora, dall'Italia: chi non fa eseguire la legge commette un reato.

Granelli è un grano nell'ingranaggio dell'ipocrisia, ha dimostrato professionalità nel prendere i pesci in faccia dai cittadini, ma i veri responsabili sono i partiti e le liste che formano al giunta: sono incapaci di uscire dall'ideologia.

Io abito di fronte a Via Montefeltro e, quando passo davanti al cancello, vedo gli zingari: spero che assieme a loro non escano i topi e le malattie.

http://it.wikipedia.org/wiki/Peste_del_1630

Nella storia c'è la verità...

Peste del 1630

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
 

1leftarrow.pngVoce principale: Peste.

L'epidemia di peste del 1630 colpì le maggiori città d'Italia e d'Europa. Venne soprannominata calamitas calamitatum per la sua particolare virulenza.

Melchiorre Gherardini, Piazza San Babila a Milano durante la peste del 1630 (acquaforte del 1633,Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

Il quadro storico

Nei secoli precedenti vi erano state altre gravi epidemie: quella compresa tra gli anni 1347 e 1351 e quella più breve ma altrettanto funesta del 1401, il cui focolaio iniziale era stato trasmesso da un gruppo di pellegrini che, diretti a Roma, erano transitati dal Colle della Maddalena. Negli anni seguenti continuarono a sorgere ciclicamente nuove epidemie (1499, 1523, 1564, 1599), per cui, la peste dell'estate del 1630 non colse di sorpresa la popolazione, già provata anche da contestuali carestie e scarsità nel reperimento delle anche più basilari risorse alimentari di sussistenza.

Gli storici concordano nell'individuare, non a caso, una grave crisi economica negli anni immediatamente precedenti il 1630, contestuale ad un calo delle nascite, che solitamente si accompagna a una diffusa malnutrizione.[1]

I primi segni della grande epidemia del 1630 si presentarono già nel 1627 nel territorio di confine presso Susa, funestata da guerriglie e invasioni di truppe francesi. Nel 1629 si registrarono altri nuovi casi anche in Francia presso Lione, poi nelle campagne toscane e, soprattutto, in Lombardia.

Milano infatti, fu una delle città più gravemente colpite dalla peste del 1630. È questa la peste che viene ampiamente descritta da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi e nel saggio storicoStoria della colonna infame.

La peste a Torino

Dalle cronache e dai documenti si presume che tra il 1600 e il 1630, Torino e il suo territorio subirono molti episodi bellici di carattere politico o religioso; le guerre tra cattolici e valdesicontribuirono fortemente a destabilizzare l'equilibrio sociale, provocando inevitabili ripercussioni sull'economia locale.

A ciò si deve aggiungere una serie di avverse stagioni caratterizzate da condizioni meteorologiche sfavorevoli che provocarono quasi ovunque pesanti carestie e un calo enorme dei prodotti alimentari di prima necessità. A tal proposito si può ricordare un editto emanato dallo stesso Duca Carlo Emanuele I di Savoia, al fine di calmierare i prezzi e limitare la speculazione sui prodotti della terra, nonché un ulteriore editto per la risistemazione e il risanamento della Contrada di Po.[2]

Guerre e fame costrinsero dunque migliaia di persone ad abbandonare le loro case, talvolta le campagne e vedersi costrette a ridursi alla precaria condizione della mendicanza, muovendo verso i maggiori centri abitati tra cui appunto Torino che, al 1630, contava oltre 10.000 abitanti.

Il 2 gennaio 1630 venne segnalato il primo caso di peste a Torino: si trattava di un calzolaio. Non è un caso che sovente le prime vittime solevano essere coloro che lavoravano a diretto contatto con calzature o con oggetti quotidiani in contiguità con il suolo che, troppo spesso, mancava delle più elementari condizioni igieniche.

Torino, come le maggiori città piemontesi, vide aumentare la diaspora dalle campagne e dai territori limitrofi, fino a vietare l'ingresso agli stranieri e chiudere le porte della città.

L'epidemia si diffuse rapidamente, coinvolgendo anche altri centri della provincia come Pinerolo ed estendendosi poi ai territori del cuneese quali: AlbaSaluzzo e Savigliano. A Torino la situazione raggiunse il culmine della propria gravità con il sopraggiungere del caldo estivo, che favorì la trasmissione del morbo.

Di fondamentale rilevanza fu la figura dell'allora neosindaco Gianfrancesco Bellezia. Egli rimase in maniera pressoché continuativa in città, che fu abbandonata dalle maggiori figure istituzionali e anche dagli stessi Savoia, rifugiatisi a Cherasco.

Eletto Decurione nel 1628 e poi primo sindaco della città proprio nel funesto anno 1630, Bellezia affrontò coraggiosamente il suo mandato venendo il fulcro dell'organizzazione sanitaria attivatasi per affrontare l'emergenza. Inoltre dovette anche contenere l'isteria del popolo nei confronti di episodi di sciacallaggio.

L'epidemia, seppur gestita con coscienzioso scrupolo, fu debellata solo verso novembre del 1630, con il favore del freddo. Su una popolazione di circa 11.000 abitanti[2]Torino contò la perdita di ben 8.000 persone, una vera ecatombe.

Nell'anno seguente e in quello successivo fu registrato un numero enorme di matrimoni. Il 7 aprile dello stesso anno la Pace di Cherasco decretò la fine della guerra per la successione del Ducato di Mantova e si andò quindi ristabilendo un relativo equilibrio; dal mese di settembre i registri di Torino tornarono a riempirsi di nuove nascite

Tuttavia, ci vollero quasi due secoli, prima di raggiungere nuovamente il numero di abitanti precedente al 1630: basta immigrati.

Alessandro Manzoni dedica il XXXI e il XXXII capitolo de I promessi sposi a questa catastrofe.

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