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Inviato da avatar Riccardo De Benedetti il 26-05-2017 alle 10:55

Molto bello e articolato il discorso di Gennai.

Propongo solo alcune considerazioni limitate a pochi aspetti del suo ragionamento, perché mette in gioco molto, scontando, purtroppo la quasi assoluta impossibilità a trovare nel dibattito metropolitano punti di sintesi e di raccolta delle idee che possano essere condivisi e oggetto delle scelte operative. Si rimprovera spesso ai cittadini la mancanza di proposte e l’affermarsi di una logica del no a tutto. Ma onestamente occorre riscontrare la mancanza proprio di coloro che per strumentazione professionale e competenze tecniche questa possibilità di sintesi dovevano cercarla e trovarla come materia prima del loro operare. Ma questo non è più fatto da tempo.

Il centro vorrebbe essere definito dalla sua permanenza. Ma se osserviamo bene e da vicino le iniziative recenti (fallocratiche come dice giustamente Gennai) tutto dicono fuorché la permanenza. Nella progettazione architettonica ipermoderna dai materiali a ogni più minuto dettaglio quasi nulla è fatto per durare, e quasi tutto è fatto per essere consumato.

La contemporaneità non ha alcun senso della permanenza: i grattacieli non sono fatti per durare ma per tenersi in piedi. Forniscono ottimi sfondi per l’estetica dello skyline, estetica instangram, effimera e brutale affermazione della prospettiva babelica. Quanto al durare è tutt’altra cosa.

Una cattedrale gotica è stata costruita per celebrare l’eterno, al massimo il grattacielo Unicredit per celebrare l’eterna circolazione del denaro, l’olio della macchina spremuto da tante olive la cui morchia è finita in periferia. Come si può immaginare che coloro che hanno costruito un centro così progettato possano andare in periferia con uno stile diverso?

Infatti anche la qualità delle case di periferia, parlo delle nuove costruzioni, è bassa, non solo sul versante delle richieste di risparmio energetico ma proprio per quanto riguarda la qualità costruttiva, la distribuzione degli spazi abitativi, con appartamenti loculi: si mangia, si guarda un po’ di tv, forse si fa l'amore ma senza farsi sentire dal bambino e poi domani mattina si ricomincia. Questo il desolante panorama della socialità interna al vivere del condominio, in cui tutto congiura per indurre il condomino a sperare di andarsene prima o poi.

Però le periferie durano, sono, anzi, la garanzia di ogni durata. Se c’è qualcosa che la città moderna e ora ipermoderna garantisce a sé stessa è proprio la permanenza delle periferie.

Credo che questa contraddizione, difficilmente risolvibile, perché neppure percepita, impedisca la trasformazione da una progettualità centripeta a una centrifuga. Va raccolto l’invito che un grande architetto milanese, qualche settimana prima di morire, mosse ai suoi amici più stretti, quello di ritornare a distanza di dieci-vent’anni sui luoghi del misfatto attuale e registrare i costi di manutenzione, lo stato delle strutture, la condizione del sottosuolo, della babele oggi così tanto celebrata. Saranno costi che peseranno sulla cittadinanza che verrà immensamente più di quanto oggi ne tragga beneficio.

Le periferie, invece, saranno sempre più abitate. Il futuro (ma quale?) delle grandi città sarà nelle periferie, ma solo perché rappresentano, come dicevo prima, l’oliva da spremere: l’olio balsamico, lenitivo di ogni ferita da una parte, la morchia dall’altra. 

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