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Inviato da avatar Gianluca Gennai il 08-07-2017 alle 18:43

Approfitto e me ne scuso, di questo spazio ideale nato da uno scambio di vedute con Paola Bocci, per approfondire alcuni aspetti.

Come non condividere un processo culturale che porti ad una riformazione delle persone là dove esse vivono spesso in modi non conformi alla società comunemente definita civile.

Tuttavia non è chiaro come si possa attuare un processo di trasformazione sociale attraverso una rinascita che poggi la propria struttura portate su una base anche culturale senza avere la certezza che questa base sia idonea per sostenere i carichi multidisciplinari che il tema delle periferie impone.

Se si veicola la cultura verso un luogo carente certamente si attua un percorso che porta positività, ma l’idea che essa possa essere l’elemento di rottura con il passato appare non esaustivo per diverse cause a partire dalla più ovvia: la differenza dei linguaggi ( non delle lingue ) che c’è tra ceti sociali e ancor più tra le diverse razze intese come caratterizzazione umana, che popolano soprattutto le periferie.

C’è da dire che le voci autorevoli si alternano al capezzale "del malato" anche con grande enfasi, ma questo assurgere sembra essere più una disquisizione tra sommi professori che alla fine non intervengono con conseguente inevitabile degenerazione della malattia.

Si parla di periferia non in periferia.

Le periferie si trasformano molto rapidamente nonostante conservino dei connotati storici tanto descritti da Biondillo come scrive Paola Bocci. Questo processo appare esponenziale e non controllato o faticosamente controllato a causa delle continue alternanze e intromissioni di nuovi elementi assai capaci di rispondere ai bisogni di un sottobosco difficilmente comprensibile anche per chi fa il mestiere dell’investigatore ( tanto per rimanere sul terreno di Biondillo ). In questi casi la cultura non esiste come termine neanche in un vocabolario apocrifo, figuriamoci in un impensabile luogo anche della mente di queste persone.

Alcuni personaggi sono legati alla storia del quartiere e vengono evocati quando si vuole raccontare un passato con una certa nostalgia o con fare romanzesco, facendo un panegirico dei modi con cui riuscivano ad essere uniti nelle differenze anche tra buoni e cattivi, comprensivi e presenti nonostante le difficoltà.

Oggi molte cose sono cambiate e l’evoluzione che c’è stata appare poco chiara a chi dovrebbe intervenire con una anamnesi e una eventuale diagnosi e cura, tanto meno a chi dovrebbe gestire i processi di riqualificazione e ciò comporta una ulteriore frammentazione degli strati sociali ed una inedia profonda vs i temi sociali e la tanto cantata partecipazione diretta dalla quale spesso si passa alla bulimia social nel tentativo di sopperire al "non esistere" nei sobborghi, allontanandosi ancor più da una possibile rigenerazione urbana "tout court".

Chi vive in periferia conosce bene i codici occorrenti per accedere ai meccanismi sociali del quartiere ( Biondillo docet ) e sa quali vaccinazioni occorre fare per non ammalarsi di depressione urbana pur sottacendo al "cacicchismo" locale che imperversa nei quartieri sia pure con colori politici diversi o con connotati diversi applicando, nella maggior parte dei casi, una rivisitazione moderna del panem et circenses di memorie imperiali, talvolta in chiave grottesca, tramite proclami se non promesse regolarmente procrastinate se non totalmente passate in cavalleria.

La periferia non è un termine generico dove scompaiono le identità locali, è semmai un termine geografico di una entità vivente, esattamente come i termini centro o semi periferia anch’essi generici ma geograficamente ben definiti e localizzabili senza possibilità di errore nei quali inserire nomi specifici e dettagli per meglio identificare un luogo.

C’è da dire che esiste anche una mutuata reciprocità da sempre legata a delle regole geometriche per le quali non credo si debba discutere più di tanto in quanto assunte a regola, c’è un centro e una circonferenza periferica, in questo non ci vedo niente di negativo, se mai il paradosso sta nel fatto che proprio la cultura e agiatezza economica trova discriminazione e differenze talvolta ataviche.

Se mai è necessario parlare di relazione tra centro e periferia, tra forze istituenti e forze istituite per cercare di cambiare i codici, di sovvertire quelle pratiche originate da un centro che la periferia deve forzatamente accettare. Allora quale potrebbe essere una prima vera rivoluzione culturale ? Fare delle periferie delle forze istituenti fino a costringere il centro a modificarsi.

Il conio certo dotto "poliferia" credo appartenga ad una visione circoscritta in un ambito culturalmente lontano dalla quotidianità della maggior parte delle persone a prescindere da dove abitano, certo evocativo e quindi simbolico, ma la dignità di un territorio che sottace ad un termine, è esule nel momento in cui viene violentato a più riprese senza che nessuno faccia niente, salvo poi derubricare lo stupro con studi semantici evitando anche eventuali spiacevoli responsabilità politiche ancor più dolorose soprattutto per chi è cresciuto con certi ideali e ed è costretto a cercare una qualche via di fuga per sostenere certe scelte talvolta non esattamente proletarie se questo termine ha ancora oggi un significato evocativo.

Direi con una certa ragionevole certezza, che nessun abitante delle periferie vorrebbe cambiare il nome, se mai lo status delle cose.

I bisogni dei cittadini vanno dalla riqualificazione urbana al voler essere ascoltati, alla necessità di essere tutelati a livello di sicurezza e su questo qualcosa sembra muoversi, taluni necessitano di integrazione, talaltri di essere educati a partire dall’insegnamento della lingua italiana a partire da un censimento porta a porta, altri ancora non trovando lavoro scivolano nel limbo della disperazione e hanno bisogno di essere recuperati.

Le zone hanno bisogno di essere maggiormente controllate, la viabilità di essere migliorata, i collegamenti hanno bisogno di essere ridisegnati, integrati rapidamente con nuove linee peraltro in parte già pensate.

Mancano i teatri proprio la dove il teatro nacque come luogo di svago popolare, non certo nelle vie patrizie dove anzi, il teatro era considerato un luogo di perdizione e degenerazione culturale, basti pensare a dove è nato artisticamente William Shakespeare, nei sobborghi della Londra cinquecentesca dove si faceva fatica a respirare per gli odori nauseabondi delle fogne a cielo aperto.

Un aspetto che mi ha sempre dato da pensare è l’incredibile cambiamento che c’è stato su questo tema, oggi i teatri sono lontani dalla gente comune, luoghi spesso deputati allo sfoggio del potere di certe classi agiate, di certi livelli sociali.

Mancano le biblioteche, le librerie, i luoghi dove incontrarsi la sera per scambiare due parole tranne i salotti dei privati.

Molti condomìni sono un’immagine di atavico degrado e di feroce degenerazione sociale, andrebbero demoliti, ricostruiti e presidiati dagli assistenti sociali fino all’evoluzione della specie umana ivi residente, per fare questo servono le volontà politiche e gli investimenti anche privati, forse dopo potrà arrivare anche la cultura.

In tutto questo mi specchio ogni giorno, ed ogni giorno chiedo a me stesso cosa posso fare?

In tutta sincerità non riesco a pensare che certi amministratori si domandino ogni mattina cosa possono fare per risolvere certi problemi popolari e non strettamente personali.

Una volta ho usato la metafora Beckettiana del Godot (vedi qui e qui) e ad essa mi riallaccio per dire che vedo poca efficacia nelle cure e nei progetti che leggo, non c’è nessuna possibilità di evitare l’ecpirosi sociale della periferia milanese sempre più preda del disagio e dell’abbandono tranne un’attenzione intellettuale che anzi, cresce esponenzialmente fino alle cattedre più alte ma purtroppo ben lontana dalle vie dei quartieri dove ogni giorno si manifesta in tutta la sua drammaticità il disagio e l’impotenza.

Le commissioni dedicate alle periferie delle quali credo ci sia un coordinatore nominato dal sindaco ( l’avv. penalista Sig. Mazzali ?), non dovrebbero restare chiuse nei palazzi, per quanto possibile dovrebbero svolgere il loro lavoro sul campo, andrebbero aperti veri e propri cantieri dove ogni mattina dovrebbero trovarsi i rappresentanti del popolo, cioè gli amministratori, per ristabilire quella fiducia tra cittadino e politico.

I CDZ sono una sorta di palestra politica dove allenare i rampolli e capire chi di loro potrà essere elevato di rango. I consigli di zona non possono ma anche sembra non abbiano molto interesse nel fare quanto dovrebbero fare; per esempio ascoltare con grande attenzione e senso di responsabilità i cittadini, quelli senza voce, i più soli e i più lontani che spesso gridano senza essere sentiti, figuriamoci ascoltati.

Poi c’è la questione delle commissioni, da chi sono composte, quali sono le figure professionali inserite, quanti tecnici ( ingegneri, architetti, geologi o fisici ) sono coinvolti negli studi di fattibilità spesso anche molto invasivi a livello metropolitano.

Nelle commissioni circolano le idee e vero, anche autorevoli, ma spesso irrealizzabili, valutate nella migliore delle ipotesi da studi professionali esterni spesso attrezzati per la bisogna, certo avvezzi alle dinamiche della casacca quasi come nel Palio di Siena con il risultato che alla fine sono loro i veri dispensatori di soluzioni fino al pilotaggio occulto anche senza volerlo per ovvie distanze tecniche tra controllato e controllore.

E’ vero che ci sono delle aperture istituzionali verso le rappresentanze di quartiere ma l’efficacia di un rapporto tra istituzioni e cittadino parte da una convivenza, da un contatto fisico che deve concretizzarsi ripensando al decentramento del potere amministrativo.

I quartieri sono delle città con 40K / 60K persone, con zone spesso molto diverse tra loro, addirittura vie " bene " e vie " male " adiacenti. Sono dell’avviso che si debbano creare dei presidi istituzionali da dove stabilizzare i processi di volta in volta iniziati per riprendere un sistema civico periferico oggi fortemente compromesso e tendente al collasso.

I tavoli di discussione andrebbero allestiti in luoghi vicini al problema in ordine del giorno e l’idea di progettare il futuro delle periferie da ora a 50 anni potrà essere sostenibile se si riuscirà oggi, tutti insieme ed entro brevissimo tempo, ad occuparci davvero delle periferie. Qualche associazione e comitato lo fanno concretamente e senza troppa enfasi prima che le periferie diventino delle banlieue infernali.

Gianluca Gennai

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