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Inviato da avatar Roberto Re il 11-10-2022 alle 17:44

Il 1 ottobre ho partecipato ad un tavolo interessante sulla co-progettazione nei patti di partecipazione, ringrazio labsus per l'invito e condivido sul civico diario di bordo il relativo report ricevuto oggi.

Facilitatori: Giulia Marra e Fred Fumagalli (Labsus) / Maurizio Murino (Spaziopensiero)
Testimone: Roberto Re (cittadino attivo, Patto Miglio delle Farfalle)

Partecipanti: Elisabetta Anfuso (insegnante di sostegno, scuola Primo Levi, Municipio 7); Roberto Frigerio
(consigliere comunale di Villasanta, provincia di Monza, delega ambiente e partecipazione); Marta Grelli (turismoaccessibile/disabilità); Ambra Lombardi (architetta, Dynamoscopio); Paolo Menescardi (presidente associazione sportiva Orma); Simone Peracchi (designer, percorso ‘Lambrate sui muri’); Eugenio Petz (responsabile Ufficio Partecipazione Attiva, Comune di Milano); Giorgia Serafini (architetta, associazione Terrapreta e cittadina attiva, Patto area La Goccia, Bovisa). 

Premessa:
I patti di collaborazione intervengono su soggetti e bisogni che non possono essere pensati come fissi e immutabili nel tempo. Solo la co-progettazione continua (e non solo in fase di scrittura) e la sostenibilità in termini di risorse economiche e umane possono essere garanzia della generatività delle azioni di cura.
Tutto questo richiede che il processo di innovazione amministrativa venga sostenuto nel tempo con investimenti materiali, su personale e strutture amministrative, e immateriali, sulla definizione di progetti e programmi aperti alla definizione condivisa (e ridefinizione nel tempo) di quello che è l’interesse generale.
Le domande:
Rispetto ai tempi e modi della co-progettazione, è possibile darsi un metodo?
Come si modifica il ruolo dell’ente locale nel percorso avviato con il patto di collaborazione e cosa sarebbe utile per la sostenibilità dei patti oltre il loro termine?
La discussione:
In risposta alla prima domanda, i partecipanti al tavolo concordano nel dire che NON esiste UN metodo per co-progettare, ma esistono delle caratteristiche che possono facilitare una ‘buona co-progettazione’. Nello specifico, ogni ‘tecnica’ di co-progettazione dovrebbe essere:
adattabile > ogni gruppo sviluppa un proprio metodo adatto a sé
partecipativa > per riuscire a ‘immaginare a partire dai bisogni’ in un’ottica di ‘problem solving’
trasversale > ovvero ‘capace di agire da più direzioni’
paziente > la co-progettazione è un processo, è importante prendersi il tempo per tenere in considerazione e valorizzare anche i momenti di blocco

Per co-progettare è fondamentale prestare molta attenzione alla comunicazione (sia sui territori che nella dimensione online) intesa come:
trasparenza
dialogo tra soggetti (e dunque sviluppando capacità di ascolto e non solo di comunicazione)
coinvolgimento diretto (di tutti i target, compresi i bambini)
monitoraggio (per mantenere canale comunicativo acceso durante tutto il processo)

Rispetto alla sostenibilità nel tempo dei patti, emergono due difficoltà in relazione alle risorse umane ed economiche a sostegno dei processi. La prima riguarda il possibile progressivo allontanamento, dopo la firma del patto, di associazioni e persone attive nell’azione di cura. Non tutte le alleanze ‘devono’ durare nel tempo (“c’è chi resta e chi va”, “Un patto NON è un patto di sangue!”). Un patto ‘funziona nel tempo’ solo se riesce a fare da calamita e aggregare ‘altre’ risorse di prossimità (comprese altre forme di attivazione, ex. volontariato aziendale).
Anche le risorse economiche possono esaurirsi ad un certo punto. Il tavolo si interroga su quali relazioni possano instaurarsi con altri soggetti (ex. enti profit) per allocare risorse a supporto dei patti. Si identifica l’attore pubblico come garante del ‘valore pubblico’ di un possibile investimento economico di un ente profit (anche una multinazionale può aderire ad un patto?) e si sottolinea la necessità di mettere a sistema le risorse di un territorio orizzontalmente.

Rispetto al ruolo dell’ente locale (e a come può cambiare nel percorso avviato nel patto di collaborazione), si sottolinea la duplice funzione: da un lato, l’ente pubblico dovrebbe abilitare i processi creativi, soprattutto laddove non emergono spontaneamente, intervenendo attivamente per abbattere e superare ogni forma di barriera, integrando le diverse comunità e facendo attenzione ad offrire loro le stesse possibilità, in un’ottica diinclusione; dall’altro, questi processi possono anche nascere autonomamente (si sottolinea in questo senso il carattere ‘generativo’ e ‘aggregativo’ dei patti che usano, intendono e presidiano lo spazio pubblico come bene comune).
 
In questo secondo scenario, l’ente dovrebbe valorizzare il ruolo della cittadinanza attiva che si prende laresponsabilità dell’azione di cura, riconoscere i cittadini attivi come alleati delle istituzioni con cui avere un rapporto paritario e, semplicemente, mettersi in una posizione di ascolto e osservazione, per ‘imparare dalle pratiche/esperienze sul campo per ibridare poi la dimensione delle politiche’ (Un punto di riflessione, solo accennato, rispetto a questo punto riguarda la trasmissione di conoscenza a partire da queste pratiche e si interroga su possibili strumenti di condivisione, anche artistici, per raccontare i patti, ex. storytelling, report, ...)
 
Non sempre la macchina amministrativa è pronta a (o capace di) stare in questa posizione non autoritativa: emerge il ruolo fondamentale delle ‘figure intermediarie (i community manager, i tutor, le associazioni dei genitori nei patti che hanno a che fare con la scuola, gli ‘esperti’) da formare affinché diventino dei referenti dei patti, capaci di dare continuità alle azioni nel tempo. Gli equilibri tra le diverse posizioni (anche di leadership) all’interno di un patto possono cambiare nel corso del tempo: in questo senso, è importante chiarire i diversi ruoli, e riconoscere il contributo di ogni soggetto coinvolto.
 
 

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