Rispondi a:

Inviato da avatar Pietro Tamburrini il 08-02-2023 alle 09:35

Riceviamo da Roberto Caracci:

---------

DUM VIVIS, SPERARE DECET. SPERANZA E FIDUCIA.
I LABORATORI DELLA SPERANZA

IN MARGINE AL DISCORSO DEL FILOSOFO SALVATORE NATOLI ALLA “FILOSOFIA SUI NAVIGLI” 5.2.2023

Natoli ci ricorda che la speranza è qualcosa, sentimento o emozione o pulsione, radicata in noi, a livello biopsichico. E affonda le radici nella stessa volontà di vivere, di continuare a vivere, di persistere e perpetuarci e insistere con lo stesso fatto di vivere. Vita che vuole se stessa.

Ma affinché non si tratti di un mero sogno, di una semplice fantastica velleità, di cosiddette ‘vane speranze’, per citare Leopardi, è necessario che la speranza sia supportata, nutrita, educata dalla stessa volontà, da un credere nelle cose, da un ‘crederci’: passando dunque attraverso l’operatività, la progettazione, lo slancio, la programmazione, dunque uno sguardo al futuro, proiettato sull’obiettivo, fermo e perseverante.

In sede teologica, la speranza finisce con l’agganciarsi alla fede, ma talvolta una fides sganciata dall’immanenza, lontana dalla realtà possibile e dal presente, utopica. Anche il termine utopia (mi permetto di postillare) è una parola preziosa nel suo significato di non-ancora-luogo, e non semplicemente di non-luogo, di isola che non c’è. In sede laica, per dir così, la speranza parte dal basso, e trova il suo motore nella forza della volontà, ossia in una fede immanente che punta alla trascendenza come slancio operativo. Spero ciò che posso, spero il possibile, non l’impossibile – o almeno in sede utopica (alla Bloch) spero la possibilità dell’impossibile, l’impossibile del topos non ancora raggiunto ma potenzialmente raggiungibile.

La speranza, aggiunge Natoli, vive la sua drammatica ma propositiva oscillazione tra possibilità della realizzazione utopica e possibilità del suo fallimento. La speranza, sia in sede laica sia per una certa teologia, è rischio. Aggiungerei che in sede teologico-confessionale la speranza è meno a rischio, tende ad essere stabilizzata, per il semplice fatto che la si trova agganciata al giogo assicurativo della fede incrollabile, laddove questa assicurazione la speranza laica, pur essendo attesa di compimento e promessa,  non la gode, come neanche gode dell’incrollabilità della fede.

Ma a questo punto, e Natoli accenna a questa distinzione, bisogna distinguere fra fede e fiducia. Già in sede romano-pagana la fides si legava al patto, all’accordo, all’assicurazione del legame tra persone, senza bisogno del beneplacito teologico, ma semplicemente giuridico, legale. Fede e fiducia hanno la stessa radice etimologica, ma a ben considerare la fede conserva nella sua parola, in senso cristiano, una trascendenza che la fiducia non ha. Solo in taluni casi noi diciamo ‘fede nella persona’ o ‘fiducia in Dio’: diciamo ‘fiducia nella persona’ e ‘fede in Dio’. E quando la fede nella storia sostituisce la fiducia (fede nel capo, fede nel papa, fede nel duce), le conseguenze etico-politiche non sono state gradevoli. Il rischio, soprattutto in senso teologico, è che il credere diventi stampella della speranza. La fiducia è umana, la fede allude a una trascendenza che spesso può soffocare l’immanenza. Laddove per esempio, nel campo dell’amicizia, in quella philia di cui Natoli tesse le lodi sulle tracce dei greci e di Epicuro,  avere fiducia nell’amico è ben diverso dall’avere fede -termine quasi epico-cavalleresco- nell’amico.

La fiducia, tra l’altro, quella necessaria ad alimentare la speranza, è anche la fiducia (e non la fede) in sé stessi, il cosiddetto ‘crederci’. A questo punto vorrei avanzare una modesta considerazione, che ha a che fare con la forza del crederci, appunto, ossia la forza della volontà che sarebbe alla radice di tutto, dunque anche dello sperare. Natoli ha sempre dato molta rilevanza alla volontà sul piano etico. Nel suo discorso la volontà appare un merito, la forza di volontà e lo stesso coraggio, soprattutto come coraggio di vivere malgrado tutto. La volontà è ovviamente anche quella di progettare, programmare, costruire la propria esistenza. Se la volontà è un merito, in quest’ottica, la mancanza di volontà ovviamente è un demerito, ossia una debolezza che si sconta. Se non hai ottenuto un obiettivo che volevi, ti dovresti chiedere se lo hai voluto abbastanza. Può darsi che hai creduto di volerlo, ma in fondo o non lo volevi oppure lo volevi con scarsa convinzione. Eri debole nella volontà, dunque nella cosiddetta motivazione: non eri motivato abbastanza. Ora, se le motivazioni vengono principalmente da noi stessi, vuol dire che siamo noi a motivarci da dentro, senza spinte esterne. E se non riusciamo a darci queste motivazioni? Vuol dir a questo punto che non le vogliamo abbastanza. Vuol dire che la stessa volontà che sta alla base del tutto non è sufficientemente forte. Ma allora si risale a monte, non vogliamo abbastanza nel senso che non ‘vogliamo volere’. Si può imparare a voler volere? Il coraggio, diceva Manzoni, uno non se lo può dare, ma a dire il vero neanche la volontà, se la volontà in questo senso è una potenza istintiva, e comunque pre-razionale, avente a che fare con la forza (di anima e di corpo). Aiutare o educare qualcuno a volere, è compito arduo (vuol dire motivarlo dall’esterno, persuaderlo), ma aiutare o educare qualcuno a ‘voler volere’, è doppiamente arduo, perché affonda nelle fibre stesse dell’insostituibile soggetto operante.

Se dunque la speranza è emozione, attiva e non passiva, ciò che la “emove” dovrebbe essere sorgente o fuoco che la pressa dall’interno. Ma quell’interno è il mistero che ciascuno porta dentro, profondo appunto come la volontà individuale. La coltivazione della speranza -termine che Natoli brillantemente usa- dipende dunque da un’altra coltivazione, che riguarda il sottosuolo della volontà, che poi qui diventa volontà di credere – hilmanniana ghianda che neanche uno psicoterapeuta riesce del tutto a cogliere. Il grande James aveva intitolato il suo più celebre libro “Volontà di credere”, e qualcuno tra i cristiani era sobbalzato a vedere ridotto il credere a qualcosa come la Volontà. Anche perché se tu affidi alla volontà il tuo credere, e il tuo crederci, vuol dire che dietro tutto c’è la stessa volontà di volontà: tu vuoi volere, dietro il tuo volerci credere. Ecco perché probabilmente Natoli affida alla parte finale del suo discorso  una soluzione intercomunicativa. In pratica, dietro l’amico, il compagno, lo stesso partner forse, c’è la rottura del solipsismo della volontà, del crederci da soli, della debolezza individuale del credere: è necessaria una sponda alla speranza solipsistica, alla volontà di volere da soli, non ci si riesce se qualcuno non spera con noi, non vuole con noi. Come se la volontà, in fondo, dal punto di vista etico, non ci appartenesse completamente, e il mio sperare e volere rispecchiasse il tuo sperare e volere. L’uomo non può essere solo a sperare. E neanche a volere -malgrado il muro della responsabilità- perché dietro la galleria vertiginosa del volere di volere di volere, si spalanca l’abisso del nulla, del motore che gira a vuoto dell’io che non spera più, o che non vuole più.

E il rischio è anche quello, tra l’altro duplice: da una parte, che qualcuno imputerà il tuo fallimento alla tua debolezza volontà, il tuo non averci creduto abbastanza; dall’altra, che nel vuoto della tua volontà entrerà qualcuno che, oltre alla colpevolizzazione, te lo riempirà con la sua.

E delle due l’una: o il voler volere, come il voler sperare, è forza interiore, psico-fisica direi, che ha a che fare con la natura istintiva del sentire e dell’agire, oppure voler volere e voler sperare sono atti mentali, ossia volontà in senso morale, che si innervano e finiscono col sopraffare l’istinto del volere e anche quello dello sperare. Nel primo caso la natura è sovrana e come nessuno mi può dire cosa sentire, così nessuno mi potrà far volere o sperare ciò che sento. Nel secondo caso si può vivere una sovrapposizione tra io e super-io, tra ciò che sono e ciò che vorrei essere, ossia tra ciò che voglio e ciò che voglio volere, o tra ciò che spero davvero e ciò che spero di sperare.

Natoli, come è noto, sottolinea il valore della perseveranza. Perseverare, ossia proseguire sulla strada del proprio operare una volta scelta, è virtuoso. Molto sottilmente, Natoli distingue la perseveranza dalla pertinacia, a cui invece attribuisce un valore negativo, vicino all’ostinazione, e probabilmente alla pervicacia. Sarebbe dunque la pertinacia, e non la perseveranza, ad avvicinarsi al monito del celebre proverbio latino (e quanti proverbi latini Natoli cita, ad eccezione però di questo): Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. No, perseverare – nel senso inteso da Natoli- non solo non è diabolico ma è divino, per così dire, struttura e fonda il gesto dell’abitudine, per dirla con Aristotele, in buona abitudine, in abitudine costruttiva. L’identità si plasma anche a partire da questa sorta di resilienza della volontà che si chiama la perseveranza.

E’ noto che il perseverare, derivato in latino di "severus" come persistere e mantenersi fermo e costante nei propositi,  presuppone una resistenza del negativo, ossia delle forze contrarie da combattere e oltrepassare, un andare oltre da parte della volontà, oltre gli ostacoli. Ecco perché Natoli allarga il concetto di perseveranza, di ascendenza stoica come dimostra la sapienza di Epitteto e Marco Aurelio ampiamente citati, ad un altro concetto tipicamente stoico, quello di tolleranza (vicino all’epitettiano "sustine et abstine") e di sopportazione del dolore. Il dolore fa parte della vita, ripete il grande autore del libro più noto, L’esperienza del dolore. Perseverare vuol dire anche mantenersi fermo oltre gli ostacoli che la vita presenta, proseguire per la strada intrapresa oltre i tronchi d’albero caduti, potremmo dire.

Certo, mi permetto di aggiungere, l’uomo dovrebbe fare così, mai rinunciare, mai demordere, mai scoraggiarsi, e mai desistere dal volere ciò che vuole. Ma per essere sicuro della bontà della strada intrapresa, l’uomo dovrebbe avere una visione chiara delle cose e soprattutto di sé stesso. Lo scegliere di perseverare su una strada, una volta intrapresa, anziché abbandonare la via cosiddetta principale per imboccarne una laterale, nuova, diversa, non è facile, anzi presuppone una sapienza e una lungimiranza stoica che si adattano più alla classica limpidissima etica greco-romana del dovere che all’uomo comune, quello moderno.  

C’è una frase che colpisce nel discorso ad ampio raggio di Natoli, ed è quella che mette l’uomo dinanzi a un bivio: Se non si cresce, si decresce; se non si avanza, si arretra; se non si programma, si viene programmati dalla vita o dagli altri. Se al principio del discorso Natoli mostrava di rifiutare un’idea della speranza come speranza passiva, puramente contemplativa, di chi spera e attende, in nome di una speranza attiva, fondata sulla forza di volontà e sulla fede-fiducia, amor vitae e volontà di essere, ora sembra ritenere rischiosa e spesso nichilistica ogni traccia di abbandono, di gelassenheit, di rilassamento: nell’etica natoliana, ogni rilassamento è passibile di rinuncia, di uscita dal gioco, anche dal gioco tragico della vita.

Bisogna continuare, e io continuo, concludeva Samuel Beckett nell’Innominabile. Anche per Natoli bisogna continuare, insistere e persistere, perseverare. E lui non parla ( vedi i suoi libri precedenti) di un semplice perseverare come fare per il fare – la passione del fare come copertura del pensiero- ma come agire, ovviamente agire in vista di fini, agire etico. La speranza stessa ha i suoi laboratori, perseveranza e fiducia sono i suoi alleati pragmatici più che teorici.

"Dum vivis, sperare decet", la massima medioevale tradotta volgarmente con ‘finché c’è vita c’è speranza’, andrebbe più precisamente tradotta con ‘mentre vivi, è decoroso, è giusto, è doveroso sperare’. Dunque in questa accezione sperare conviene, sperare è utile, come era conveniente credere nella scommessa pascaliana. Allora se non speri, sei fuori nell’orizzonte vitale, sei un sopravvissuto a te stesso. Diciamo pure che, non mettendo a frutto i tuoi talenti, sei un fallito. Natoli, ripeto, lega il concetto di speranza a quello di progetto, nel quale i possibili (i talenti), si possono o non possono realizzare, ma ‘bisogna’ provarci, sperare è doveroso (decet). Il filosofo fa della speranza qualcosa di concreto, come faro della operatività, dell’agire produttivo, e immanente. Anche la trascendenza di questo agire si radica nell’ immanenza.

Un sano ottimismo di fondo, non slegato da una concezione tragica dell’uomo, permea come un vento forte e corroborante le parole di Natoli. Quel vento a volte ha folate pedagogiche e quasi, oserei dire, psicagogiche. La perseveranza che lui indica come faro dell’agire è anche quella che lui stesso trasmette con la sua sottile e lenta oratoria suadente. In fondo Salvatore Natoli ha sempre provato, brillantemente,  a tessere tele di energia vitale, a forgiare un campo etico nella stessa sala delle sue conferenze, a creare un lucido campo ipnotico e persuasivo, con un trasporto umano e una convinzione calda che pochi filosofi italiani riescono oggi a trasmettere allo stesso modo.

Roberto Caracci

------

Accedi

Devi inserire Nome utente e Password per inviare un messaggio. Se non li hai Registrati

L'accesso a questo sito è possibile anche per gli Aderenti alla Rete Civica di Milano selezionando nel menu a tendina la voce "Aderente della Rete Civica di Milano".