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LA VERITÀ È ANCORA “ADAEQUATIO REI ET INTELLECTUS”?
- JEAN-FRANCOIS LYOTARD: con La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979) fonda il POSTMODERNISMO: Fine delle “Grandi narrazioni”, dei “sistemi” che presumevano di fornire spiegazioni complete dell’intera realtà, cioè di coglierne la verità. Presumevano di “spiegare tutto e una volta per tutte” (razionalismo, empirismo, idealismo, materialismo dialettico o “Dia-mat”, positivismo…). Crisi dei concetti di verità e di razionalità.
DEFINIZIONI DI “VERITÀ:
- VERITA’ = (Greco antico) A-LÉTHEIA (pron. “alézeia) = NON-NASCONDIMENTO, DIS-VELAMENTO.
- SAN GIOVANNI (8, 32): “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.
- TOMMASO D’AQUINO (XIII° sec.) e già prima di lui Avicenna (XI° sec.): Verità = “Adaequatio rei et intellectus” (“Adeguamento tra la cosa e l’intelletto”). Prevalentemente, ma forse troppo arbitrariamente, interpretato come: “intellectus ad rem” (“dell’intelletto alla cosa” = teoria del “riflesso”) anziché “rei ad intellectum” (“della cosa all’intelletto).
- HEGEL: “Il vero è l’intero” (Fenomenologia dello Spirito, Vorrede, 1807). Visione “comprensiva”. “Il finito si risolve nell’infinito”. “Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale” (Lineamenti di filosofia del diritto). (“Panlogismo”, “Giustificazionismo”).
- NIETZSCHE: “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni” (Frammenti postumi). No al carattere “granitico”, “monolitico” della realtà, della verità e della razionalità. Sì al carattere “composito”, “com-prendere”.
- “Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è altrettanto non razionale quanto il primo è non artistico.” (Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, 1873). “Prospettivismo”. “Com-prendere”.
- HEGEL e NIETZSCHE (sistematico ed asistematico, razionalista ed irrazionalista) ci indicano la strada: evitare i trabocchetti del pensiero unidimensionale (Marcuse) ma anche ma anche quelli del pensiero dualistico o binario il pensiero schiavo degli AUT-AUT: razionalismo o irrazionalismo, unità o molteplicità, sistematicità o asistematicità. Ma innumerevoli sono i dualismi da superare (vedi Ermeneutica).
Altro dualismo da superare quello tra sfiducia nella ragione e fiducia acritica e incondizionata. Auspicare autocritica della ragione: Locke, Saggio sull’intelletto umano; Hume, Trattato sulla natura umana; Kant, Critica della Ragion pura.
Può sembrare una questione vetusta e obsoleta, ma da Nietzsche in avanti in molti si sono occupati del problema della verità e cercato di tracciare nuove vie di ricerca nei suoi confronti:
- Hans Georg Gadamer: Verità e metodo (1960)
- Luigi Pareyson: Verità e interpretazione (1971)
- Jürgen Habermas: Su “Verità e metodo” di Gadamer (1971)
- Karl Otto Apel: Discorso, verità, responsabilità (1997)
- Richard Rorthy: Verità e progresso. Scritti filosofici (1998).
- ERMENEUTICA
Un altro passo in avanti ce lo consente l’Ermeneutica. Con il concetto di “circolo ermeneutico” (Friedrich Schleiermacher, Wilhelm Dilthey). l’Ermeneutica ci dà l’abbrivio per superare il pensiero binario (soggetto e oggetto, io e mondo, mente e corpo, uomo e natura, ragione ed emozione, individuo e società, teoria e prassi).
Tra l’altro l’ermeneutica sembra sviluppare l’intuizione di Marcel Proust che nella conclusione di “Il tempo ritrovato” scrive: “Invero questi non sarebbero stati miei lettori, ma lettori di se stessi essendo il mio libro qualcosa grazie al quale avrei fornito loro il mezzo di leggere in loro stessi”. (L’interpretazione è sempre “dialogo”, con se stessi e con gli altri).
HANS GEORG GADAMER in “Verità emetodo” (1971) sottolinea l’esistenza di “esperienze di verità” alternative a quelle offerte dal metodo scientifico (dalla “dimostrazione” alla “comprensione”). Apre quindi ad un nuovo concetto di”verità”.
L’Ermeneutica cerca il fondamento di un nuovo concetto di verità e di razionalità nel linguaggio, nel “pre-giudizio” e nella tradizione (da tradeo = trasferisco, consegno, tramando).
Ma in questo modo finisce, sulla scia di Heidegger (“Il linguaggio è la casa dell’Essere”) con l’ontologizzare ed ipostatizzare il linguaggio (“l’interpretare è l’essenza dell’ente-uomo”) e tutto ciò che esso ci consegna, col far perdere al concetto di verità la sua carica critica (cfr. Nietzsche).
Così non è per PAUL RICOEUR per cui “Il linguaggio non è un mondo ma rinvia ad un mondo” e per LUIGI PAREYSON per il quale la verità è “inesauribile” e inoggettivabile” (Verità e interpretazione, 1971), non è fondamento ma Ab-grund (“Abisso”) e la libertà coincide con il carattere inesauribile della ricerca della verità.
- TEORIA CRITICA
All’ermeneutica si giustappone e per certi versi si contrappone la TEORIA CRITICA che prende le mosse dai fondatori della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e Marcuse) e si sviluppa con i loro allievi Jürgen Habermas e Karl Otto Apel
JÜRGEN HABERMAS, Su “Verità e metodo” di Gadamer (1971):
“Gadamer trasforma il riconoscimento del pregiudizio come struttura del comprendere in una riabilitazione del pregiudizio in quanto tale. Il pregiudizio di Gadamer in favore dei pregiudizi legittimati dalla tradizione disconosce la forza della riflessione. Il diritto della riflessione richiede un sistema di riferimento che oltrepassi il contesto della tradizione come tale.
Questa metaistituzione del linguaggio come tradizione è anche uno strumento di dominio e di potere sociale. Esso serve a legittimare l’organizzazione dei rapporti di potere. Il nesso oggettivo in base al quale soltanto possono essere comprese le azioni sociali è costituito insieme dal linguaggio, dal lavoro e dal potere.
Karl Otto Apel ha rilevato con ragione che il comprendere ermeneutico serve all’accertamento critico della verità solo nella misura i cui sottostà al principio regolativo di produrre un accordo universale [e di] anticipare al tempo stesso la struttura di una convivenza in una comunicazione in cui sia assente ogni coazione. Pertanto la comprensione critica deve pretendere l’anticipazione formale della vera vita come di una forma di vita da realizzare in avvenire.
Siamo comunque nella condizione non solo di avanzare l’esigenza di quel principio regolativo, ma anche di fondarlo, solo se possiamo dimostrare l’anticipazione della possibile verità e della vera vita.” [Fine della citazione]
Qui Habermas ci indica una direzione nella quale dobbiamo avere la forza ed il coraggio di procedere con la nostra testa e con le nostre gambe.
Proviamo ad “interpretare” le sue indicazioni… Da una parte abbiamo bisogno di mantenere vivo un atteggiamento critico nei confronti della realtà data, del mondo [di cui siamo parte integrante] come si trova allo stato attuale. E questo atteggiamento può esssere definito come “pensiero critico”. Dall’altra parte, proprio per poter esercitare questa critica, abbiamo bisogno di un modello, di un progetto alternativo. Ed a fornirci un tale modello può essere il “pensiero utopico”... L’ideale regolativo di una “vera vita”, di una casa comune, di una convivenza in cui sia assente ogni forma di coazione. Il che, stiamo ben attenti, non vuol dire assenza di regole, ma vuol dire presenza di regole e di opportunità eque ed uguali per tutti. Questa “vera vita” ha un altro nome, che è il nome “libertà”.
Dirò di più... Abbiamo bisogno di un pensiero razionale che non tema di affrontare aporie e paradossi. Questa nuova razionalità deve avere la forza ed il coraggio di accogliere addirittura posizioni autoconfutative, come per esempio quella per cui "la tesi della storicità del conoscere è essa stessa storica", tanto per citare il compianto Gianni Vattimo. Sottoporre se stessa al dubbio, alla critica, all’interrogazione, utilizzando anche nei confronti di se stessa quelli che sono gli strumenti più potenti della ricerca filosofica.
A mio modo di vedere questo cammino verso la verità (e verso la libertà) è un cammino infinito tale da poter rendere noi stessi infiniti. E noi, paradossalmente, possiamo divenire in-finiti proprio perché in-compiuti, imperfetti.
Vale forse la pena di ricordarci che una delle argomentazioni di Kant (secondo lui addirittura una "prova") a favore dell'immortalità dell'anima suona all'incirca così: il cammino verso il Sommo Bene (cioè verso la perfezione morale fatta di virtù e felicità) è un cammino infinito: pertanto non può esaurirsi nella nostra vita terrena e quindi "postula" un'ulteriore dimensione infinita per essere compiuto. Questo è il modo in cui Kant "salva" (su basi etiche) la metafisica e la trascendenza dopo averne escluso la possibilità su basi scientifico-gnoseologiche.
Ora, a mio personale avviso, è possibile tentare invece la via di quella che io amo chiamare una "trascendenza laica" e quindi una forma di sopravvivenza o di continuità che non implichi necessariamente la dimensione teologico-religiosa. La nuova razionalità deve saper trascendere, andare-oltre, oltre-passare una miope ontologia della presenza e guardare verso il passato per capire la propria storia, ma soprattutto verso il futuro per capire dove vuole andare… Spostare i propri valori fondanti (libertà, giustizia, condivisione…) da un passato ormai immodificabile verso un futuro da progettare e da costruire insieme. La nuova razionalità deve poter dire: “Io ho un valore veritativo non perché ho un retroterra di verità, ma perché ho degli obiettivi di verità”.
Ed è proprio su basi intersoggettive (per intenderci meglio attraverso quella che Habermas ed Apel chiamano rispettivamente "Etica del discorso" ed "Etica della comunicazione") che è possibile percorrere quel cammino infinito verso la verità e verso la libertà di cui, in altri termini, parla anche il Vangelo di Giovanni. Ma un tale cammino oltre all'intersoggettività richiede anche l'interdisciplinarità. Richiede di superare il vecchio razionalismo cartesiano-illuministico-idealista (che presumeva di spiegare tutto e una volta per tutte) per una razionalità tutta nuova che sappia valersi anche dei contributi dell'intuizione, dell'emotività, del sentimento, dell'immaginazione, della fantasia, del sogno, della creatività, della comunicazione, dell'arte, della poesia. E che sappia valersi dell’agire, del “fare”, perché, come spero di essere riuscito a indicare, il cammino verso la verità e la libertà non è e non può essere solo un impegno teoretico e gnoseologico, ma dev’essere anche un impegno etico-pratico.
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