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Inviato da avatar Luciano Bartoli il 18-03-2012 alle 12:52

Considerato quanto pubblicato in questi giorni , vi invito alla lettura

Ticinese 1979 di:

Luciano Visintin, giornalista del Corriere della sera che per un quarto di secolo aveva saputo raccontare gli aspetti più intimi e umani di Milano.

Ticinese, un quartiere che vuole liberarsi dalla schiavitù della miseria e della droga

Pena, rabbia, amarezza degli abitanti di fronte ai mali che affliggono questo popolare zona di Milano.

24 giugno 1979

Povero Ticinese. E’ il quartiere più pittoresco, ma anche il più sventurato della città. L’altro giorno ha buttato all’aria i suoi stracci, con la serrata dei negozi del corso e le invocazioni gridate dai manifesti appesi ai muri: <<Il Ticinese vuole vivere!>>. E invece, a poco a poco, è un quartiere che muore.

Il male che lo uccide non è soltanto la droga. Questo è l’aspetto più ingombrante – quei grumi di umanità giovane e disfatta che si formano agli angoli con via Vetere, per strisciare in sonnambule processioni lungo i marciapiedi stretti e roventi nell’afa – ma altri tumori corrodono la vita del vecchio corso. Le case decrepite, ad esempio, coi cessi ancora sui ballatoi.

<<Lei dovrebbe vederla, al mattino – diceva ieri un negoziante che abita al numero 69 – la coda davanti alle turche. Tutti in fila, con il loro orinaio in mano, ricoperto da un giornale; e fischiettano, si guardano intorno, fanno finta di non conoscersi, di non esserci addirittura>>.

Case cadenti, immigrazione disordinata, degradazione progressiva del quartiere. <<Qua c’è posto per tutti – incalzava un altro esercente - . Arabi, egiziani, negri. Non per essere razzista, ma voglio dire che tutti gli sbandati, da tutto il mondo, arrivano qui>>. I portelli delle case restano aperti giorno e notte, chiunque può entrare, buttarsi a dormire sulle scale o salire fino a qualche appartamento, per rubacchiare qualcosa.

Alle volte, i drogati varcano la soglia del portello solo per vomitare nell’androne. Lo fanno, e via. <<E chi pulisce? – chiede con accento di disperazione una signora che vende elettrodomestici -. Stamattina il falegname ci ha buttato sopra un po’ di segatura, ma…Si tira avanti così, come si può>>.

<<Questo corso, guardi – dice un’anziana merciaia, nel suo negozietto – vogliono farlo morire. La gente non viene più, perché ha paura di incontrare i drogati. E così il lavoro diminuisce, giorno dopo giorno. Quelli di via Arena, pensi (cosa saranno, cento metri di distanza?) preferiscono andare ai negozi di Porta Genova>>.

<<Certo – rincara la dose quello degli elettrodomestici – che il lavoro diminuisce. Ma c’è anche il lavoro che bisogna rifiutare, per forza. Vengono dentro con quegli occhi stralunati e mi mettono sul banco una radio, un registratore. Tutta roba rubata, è chiaro. Me li aggiusta? – chiedono- . E io: non posso, ho il tecnico malato. Non sono mica matto, a lavorare per quella gente là. Qualcuno capisce che è una scusa, e allora minacciano di bucarsi nel negozio, di farmi la pelle…Roba da matti!>>.

Da un negozio all’altro, è tutta una storia di drogati che entrano, comprano qualcosa ( di solito pagano, anche se magari manca un cinquanta , cento lire) oppure chiedono semplicemente un paio di monete per la siringa. <<Io so che è per quello – ammicca la pollivendola – ma glieli do lo stesso. E una volta mi ero stufita, e non glieli ho dati, mi hanno rinfacciato: però le tasse le paga, eh? Non sapevo se ridere, o…>>.

<<E’ inutile – osserva un tintore – è un quartiere degradato, ha la popolazione che si merita>>. <<E noi? – salta su un giovane operaio – E noi? Ci meritiamo questo, noi?>>.

Una cliente racconta che, dieci giorni fa, mentre camminava sul marciapiedi col figlio, tenendo il borsellino in mano per la spesa, uno è passato di corsa e glielo ha portato via, al volo: c’erano dentro dieci, dodici mila lire. Ma episodi del genere ne hanno tutti da raccontare. <<Nel mio negozio – dice la signora delle scarpe – sono entrati in quattro, tre arabi e una vecchiaccia bianca. Questa qui mi ha impegnato in chiacchiere, prove su prove, e intanto quelli mi votavano il cassetto. Hanno ripulito persino la giacca di mio marito, che era appesa là>>.

<<Ma non son cattivi – dicono due giovani coniugi, che hanno appena rilevato una cartoleria -. Fanno pena. Vengono qui, magari, con venti, trentamila lire e le spendono tutte in blocchettini colorati, penne e pennarelli, oggettini di cancelleria. Si incantano, davanti a queste cose>>.

<<Pena e rabbia, mi fanno – commenta “Ibiza”, artigiano del cuoio -. Ma il problema non è economico nonsi risolve con le serrate. Ci vuole un intervento serio, sul piano politico e sociale. Altrimenti, dico io, se li mandiamo via di qui, dove vanno? Da qualche altra parte. Non è un cancro del Ticinese soltanto: è di tutta la città>>.

Nel caldo del pomeriggio, passano giovani sani, canottiera, e altri curvi, ondeggianti, vestiti di scuro come falene notturne. <<Il Ticinese – è il lamento della signora delle scarpe – è sempre stato un quartiere un po’ malfamato. Ma era malavita di rispetto, vede? Andavano a farsela fuori. E qui nessuno ti toccava, anzi eri difeso che neanche in casa tua. Adesso… Bah!>>.

E’ già da un po’ che si parla – che ci fanno il nome – del bar Rattazzo, all’angolo con via Vetere. Ci andiamo lentamente, con passo quasi solenne, come ad un appuntamento grave. Fuori del bar, tre o quattro giovani si dondolano sui ferri stradali antiparcheggio. Un altro, appoggiato al muro, fa un continuo segno di sì con la testa, spalancando due liquide occhiaie nel riflesso del sole.

Dentro, nel bar, quattro in fila lungo il bancone bevono avidamente bevande gassate. Hanno le mani punteggiate di gonfiori rossi, al centro dei quali spicca un segno di puntura. Quando se ne vanno, sbatacchiando sugli stipidi della porta, il signor Pietro Rattazzo da Asti – piemontese solido e realista – allunga il mento verso il quartetto: <<Questi – dice – sono abbastanza bravi. Manon tutti sono così. Quelli che vanno avanti ad anfetamine, sono pericolosi, scattano per niente. E invece quelli che si iniettano eroina, guardi là fuori , dormono tutti, da una parte all’altra>>. Sono entrati, intanto, due giovanissimi – forse diciottenni – carichi di catenine e braccialetti, con movenze a mezza strada tra il torpore e l’adescamento. <<Questi – fa Rattazzo – sono “eroina”>>. Uno dei due capisce, si gira. <<Avrai problemi anche tu >>osserviamo. Risponde come in sogno: << Problemi? Dimenticare l’eroina, e basta. Ma non la dimentico mai. L’ho in mente sempre. E’ nel sangue. Ho detto bene, no?>>. Si guarda in torno, con aria vacua. Fuori si ferma una macchina, levando uno stridore acuto. I due escono in fretta.

<<Ogni tanto – commenta Rattazzo – arriva una macchina di lusso e li carica su. Al Ticinese si vende di tutto>>. Passa lo straccio sul bancone e non gli caviamo più una parola di bocca.

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