La Democrazia è un Bene Comune

Andate a votare, rivendicate il Primo di Popolo Sovrano, così  come sancito "in coda" all'articolo, non a caso, 1 ( ....La Sovranità appartiene al popolo, "che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione") , della Carta voluta da quei "Galantuomini" dei nostri Padri Costituenti

Credere è il primo requisito per arrivare ad essere vincenti e non vinti...

Per la Riforma che non è stata ancora scritta.

In premessa, penso non si possano mettere in discussione i presupposti che rendono necessario riformare il sistema politico e istituzionale. Purchè non si confondano i piani e non si trasferiscano impropriamente sul piano istituzionale,  i limiti della politica. Meglio se affrontando temi nuovi non previsti ai tempi dalla Carta del ‘48: le fratture e le domande dei tempi nuovi.

Sin nel titolo della riforma approvato con voto di fiducia (sic!) siamo fermi al  “contenimento  dei  costi  di  funzionamento delle  istituzioni”. Continuiamo cioè a rincorrere una realtà che è già andata avanti, perseverando più o meno nello stesso errore commesso nel 2001 con la Lega Nord.

Si certifica, anziché ridurla, la distanza massima raggiunta fra cittadini e istituzioni e politica, nel presupposto che il ceto politico più o meno di mestiere possa trovare risposte alle nuove questioni sociali della nostra epoca. Si riduce quindi la rappresentanza, senza rappresentanza la quale le risposte non ci saranno o saranno di altro segno.

Ci sono quindi degli obiettivi della riforma, più o meno dichiarati e/o condivisibili, ma vi sono anche i modi per perseguirli. Una buona riforma deve poter funzionare. Se così non fosse (sono in molti ad aver fatto presente, inascoltati, i rischi in proposito), la riforma produrrebbe danni. Infine, non si dica che non c’è alternativa, altrimenti la democrazia è già finita. Per fortuna non è così, e cercherò di argomentare meglio.

Provo ad andare con ordine

Il testo contiene cose positive: per esempio l’abolizione del CNEL, oppure la revisione della decretazione di urgenza e altri provvedimenti, che però non segnano la riforma per la quale si esprime un giudizio di preoccupazione.

Un prima direttrice è l’accentramento.
Si è rinunciato all’abolizione del Senato. La riforma non va a correggere limiti ed errori della riforma del 2001 del Titolo V, ma predispone una svolta centralistica molto forte, aprendo la strada alla fine del modello regionalista che, se pur con tanti limiti, ha rappresentato una positiva e importante novità del nostro ordinamento. L’assunto è che lo Stato, la burocrazia centrale, potrà far meglio. Da una parte lo Stato toglie alle regioni ordinarie le competenze che erano previste sin dal 1948, circa una ventina. In pratica, le regioni vengono trasformate in qualcosa di molto simile a grandi province. La riforma prevede che per una legge votata dalla Camera, previo eventuale parere del Senato, si dovrà decidere cosa non è norma generale e comune in materia di salute, di politiche sociali, di sicurezza alimentare, di istruzione, di attività culturali, di turismo, di governo del territorio e molto altro ancora. Cioè il legislatore nazionale soltanto dirà quali competenze avranno i comuni e le regioni, le quali non hanno più un vincolo legislativo costituzionale riconosciuto. La mia opinione è che cambiare il modo, l’organizzazione attraverso cui si garantisce un diritto, non sia affatto ininfluente e che, per questa via, si intervenga di fatto sul principio stesso. Cosa ovviamente sempre possibile e mio parere auspicabile. Non senza, però, un adeguato confronto politico pubblico.

Seconda questione: non è il Senato delle Regioni.
Al Parlamento compete, in qualche caso su proposta del ministero, il compito di stabilire per legge che cosa competerà alle regioni, la ripartizione delle competenze. Non sarà però il Senato cosiddetto delle regioni a legiferare in materia, bensì la Camera eletta con l'Italicum, ponendo qualche domanda. Cioè, il Senato si potrà occupare delle revisioni costituzionali, potrà autorizzare la ratifica del rinnovo dei trattati europei, si occuperà dell'amministrazione di Roma capitale, ma non si occuperà di governo del territorio, nè delle materie di minima rilevanza sociale come l’assistenza sociale, la sanità, la cultura e molto altro ancora, cioè di tutte quelle materie che sì darebbero un senso alla rappresentanza dei territori al centro. Non è quell’organo essenziale che li porta al centro del potere politico. Le burocrazie festeggiano. Perché esse vogliono i poteri concreti. Vogliono dare le autorizzazioni per le cliniche nel settore sanitario, vogliono autorizzare i grandi cinema, oppure i grandi centri commerciali. Sono questi i poteri amministrativi importanti.

Tutto ciò non riguarda però le cinque regioni a statuto speciale, che hanno una disciplina particolare, regolata da leggi costituzionali e i cui  poteri finanziari sono in alcuni casi ben più robusti della spesa per la politica. Né gli si pone un termine quantitativo temporale entro il quale adattare i loro statuti. Si inverte cioè il processo di riavvicinamento delle autonomie territoriali e si aumenta la distanza fra le regioni ordinarie e quelle a statuto speciale. Per le quali si rinvia a tempo indefinito e addirittura si introduce il diritto di veto, che prima non c'era, per le modifiche statutarie adottate con leggi costituzionali dal Parlamento!

Terzo aspetto. Non viene eliminato il bicameralismo perfetto
In genere, il Senato ha il potere consultivo sulle leggi. Non è elettivo, è di nomina indiretta, non può essere sciolto. Su 16 materie il Senato ha potere legislativo pieno. Però può darsi il caso che il Senato non approvi una di queste leggi. Che succede? A differenza di prima, non può essere posta la fiducia, perché il Senato non dà la fiducia. La legge quindi non passa, oppure il Senato (51 senatori) può alterare considerevolmente l’indirizzo di maggioranza. Per esempio, sulla ratifica del rinnovo dei trattati dell’Unione europea, sulla legislazione quadro degli enti locali. Come sulla revisione costituzionale o il rifacimento degli statuti delle regioni speciali.

Le Regioni ordinarie conservano pochissime competenze ripartite, totalmente marginali.  Oltre le quali, non hanno nessuna competenza legislativa garantita costituzionalmente. Se non quelle non scritte dal legislatore, in quanto non elencate fra le materie esclusive dello Stato. Un esempio è quello delle trivelle, per le quali abbiamo votato all’ultimo referendum. Se cataloghiamo la materia fra le riserve fossili, o nella ricerca mineraria,  essa non è elencata fra le materie esclusive dello Stato. Quindi, in base al principio per cui ciò che non viene elencato spetta alle regioni, potrebbe accadere che la prima volta che la Regione Basilicata autorizzerà o chiuderà le trivelle sul proprio territorio, nel proprio mare, il Governo ricorrerà alla Corte. E la Corte, interpretando e citando la legislazione europea, oppure i principi in materia di diritto civile, bloccherà la decisione assunta dalla Regione Basilicata. Cioè la riforma non migliora e non riduce la conflittualità. Tra le materie importanti non esclusive, vi sono l’industria, l’artigianato e l’agricoltura. La caccia e la pesca… Con alcune bizzarrie. Per esempio, il nuovo art. 117 affida alle regioni la competenza sulla "rappresentanza" delle minoranze linguistiche. Sembrerebbero quindi poter decidere per esempio sulla rappresentanza della comunità cinese nel tal consiglio comunale. Ma la regione non ha competenza sulle leggi elettorali dei comuni, le cui norme le decide lo Stato. Un pasticcio. Sia chiaro, tutto si può fare. Si possono fare anche riforme non condivise, purchè funzionino rispetto agli obiettivi che esse stesse si propongono.

Le procedure. Il contenzioso Stato-Regioni si estenderà anche fra Camera e Senato. Il nuovo testo prevede ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti; b2) le leggi che vanno sempre sottoposte all’esame del Senato; b3) le leggi che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera. All’unico procedimento bicamerale attuale, vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure. Il nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Tuttavia, vi è la possibilità che i due presidenti non raggiungano un accordo. Oltre all’incertezza e all’opinabilità delle soluzioni adottate, che  rischiano di dar vita a contenziosi su questioni di forma, allungare i tempi dei procedimenti e investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi per difetti di competenza. Inoltre, molte delle leggi discusse dal Parlamento sono in realtà interdisciplinari e potrebbero richiedere l'avvio di diversi procedimenti in contemporanea, che conducono a esiti differenti, con ulteriore complicazione legislativa. Ad esempio, se voglio riformare gli approdi dei porti, investo i poteri dei comuni e tocco due procedure diverse: la navigazione, bicamerale, e i poteri dei comuni, monocamerale. Devo quindi presentare due disegni di legge distinti. Se il secondo cade, il primo diventa inefficace. Lo stesso se volessi emanare due decreti legge, con due leggi di conversione. Discutibile davvero sul piano dell'alleggerimento delle procedure legislative.

Se il 60% dei votanti (attenzione, è una maggioranza minore di quella prevista per la fiducia al governo) non vota il Presidente della Repubblica, il PdR potrà essere assente anche per alcuni anni nel nostro sistema.  Come è accaduto per i giudici della Corte che però è un organo collegiale e può funzionare lo stesso. Le funzioni sono assunte provvisoriamente dal Presidente della Camera che però un organo certamente meno stabile è più debole. Non abbiamo previsto una via d'uscita.

Accenno soltanto alla Corte Costituzionale, che viene molto politicizzata. Le vengono attribuite funzioni che premono più direttamente al sistema politico. In più, due dei suoi 5 giudici di nomina del Parlamento vengono eletti dal Senato, alterando l’osmosi che normalmente c’è al suo interno e nominando giudici più soggetti alle ondate storiche degli schieramenti prevalenti.

Conclusioni. Votare No alla riforma è il presupposto per rimettere la discussione sul piano corretto. Su cosa fare immediatamente dopo, vi sono diverse proposte, per esempio di Gianfranco Pasquino,ma non solo. In ogni caso, faccio mie le parole di Walter Tocci: “Si è ridotta la politica a mera amministrazione di sistema. Da qui è scaturito il primato degli esecutivi sui Parlamenti. Ma nell’orizzonte europeo tornano i grandi dilemmi della pace e della guerra, dei limiti e dei nessi tra religione e politica, dell’accoglienza e del rifiuto dei migranti, della libertà individuale e dell’etica pubblica, della potenza tecnologica e dell’intangibilità della vita, dello sviluppo economico e della durata della Terra. Non sono problemi risolvibili dagli esecutivi, sono conflitti contemporanei che hanno bisogno di nuovi riconoscimenti culturali e politici. E saranno possibili solo in un'inedita democrazia parlamentare, come non l'abbiamo ancora conosciuta. Quella del secolo passato seppe neutralizzare i conflitti Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Sono ancora da immaginare i Parlamenti capaci di ricomporre le fratture della civiltà europea nel nuovo secolo. È la sfida politica dei tempi nuovi.

Il mondo che abbiamo davanti è molto diverso da quello degli anni novanta. Le riforme istituzionali della seconda Repubblica sono ormai vecchi arnesi. La riforma costituzionale per il futuro italiano non è stata ancora scritta”.

Corrado Angione
circolo Pd Fratelli Cervi di Milano

Non è il Senato delle regioni.

Una fra le contraddizioni più evidenti della riforma é che a fronte di un deciso accentramento delle competenze, si istituisce il Senato delle regioni. Lo sarebbe se il Senato rappresentasse davvero le regioni e avesse competenze conseguenti e coerenti con tale funzione di rappresentanza e di ricomposizione, come invece non è.
Da una parte, la riforma predispone, infatti, una svolta centralistica molto forte, togliendo alle regioni ordinarie (attenzione, non a quelle a statuto speciale!) le competenze che erano previste sin dal 1948, circa una ventina. Ma sarà la Camera (non il Senato!), qualche volta su proposta del Ministero, previo eventuale parere del Senato, a legiferare sulla ripartizione delle competenze, cioè a decidere cosa non è norma "generale e comune" in materia di salute, di politiche sociali, di sicurezza alimentare, di istruzione, di attività culturali, di turismo, di governo del territorio e molto altro ancora.
Cioè, il Senato si potrà occupare delle revisioni costituzionali, potrà autorizzare la ratifica del rinnovo dei trattati europei, si occuperà dell'amministrazione di Roma capitale, ma non si occuperà delle materie di minima rilevanza sociale, che sì darebbero un senso alla rappresentanza dei territori al centro. Non è quell’organo essenziale che porta le Regioni al centro del potere politico.
Lo stesso, se il Senato rappresentasse le istituzioni territoriali, i senatori andrebbero eletti dagli esecutivi e con vincolo di mandato (modello tedesco). Se, come é previsto, vareranno leggi costituzionali, eleggeranno giudici della Corte e parecchio altro ancora, andrebbero eletti direttamente, o da una vasta platea come in Francia, e senza vincolo di mandato.
In genere, il Senato ha il potere consultivo sulle leggi. Non è elettivo, è di nomina indiretta, non può essere sciolto.
Su 16 materie permane il bicameralismo paritario e il Senato ha potere legislativo pieno. Però può darsi il caso che il Senato non approvi una di queste leggi. Che succede? A differenza di prima, non può essere posta la fiducia, perché il Senato non dà la fiducia. La legge quindi non passa, oppure il Senato (51 senatori) può alterare considerevolmente l’indirizzo di maggioranza. Per esempio, sulla ratifica del rinnovo dei trattati dell’Unione europea, sulla legislazione quadro degli enti locali. Come sulla revisione costituzionale o il rifacimento degli statuti delle regioni speciali.
Tutto ciò che riguarda le regioni ordinarie, non riguarda però le cinque regioni a statuto speciale, che hanno una disciplina particolare, regolata da leggi costituzionali e i cui poteri finanziari sono in alcuni casi ben più robusti della spesa per la politica. Né gli si pone un termine quantitativo temporale entro il quale adattare i loro statuti. Si inverte cioè il processo di riavvicinamento delle autonomie territoriali e si aumenta la distanza fra le regioni ordinarie e quelle a statuto speciale. Per le quali si rinvia a tempo indefinito e addirittura si introduce il diritto di veto, per le modifiche statutarie adottate con leggi costituzionali dal Parlamento!
Non è invece stato dato avvio alla riduzione del numero delle regioni, come pure era stato richiesto, che avrebbe realizzato il vero salto di qualità.
La tesi che vorrei provare a sostenere, è che una riforma la si può condividere o meno, ma in ogni caso deve funzionare, o per lo meno deve funzionare meglio. Che questa non funzioni, lo dicono gli stessi estensori ("poi la cambiamo"). Ma possiamo approvare una riforma già sapendo che andrà cambiata? Abbiamo valutato bene quali conseguenze porteranno nel frattempo (e per quanto tempo?) i limiti anche gravi che porta con sè e che tutti riconosciamo? Possiamo esprimere la nostra opinione sul referendum fuori dalle contingenze e dalle convenienze e valutazioni politiche del momento? #ioVotoNo

Il bicameralismo confuso