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Inviato da avatar Philip Grew il 22-05-2019 alle 12:00

Mi piace questo termine “datasphere” che hai coniato. In effetti, mentre il ciberspazio nel suo complesso è un ambiente intero che esiste come mente condivisa dalle persone che popolano il luogo virtuale, la datasphere mi sembra un buon nome per la parte dietro le quinte. Questa datasfera quindi sarebbe il ripostiglio di quel che Zuboff chiama shadow text, l’insieme di metadati su chi ha letto quale pagina che scriviamo ognuno mentre navighiamo o pedaliamo la Mobike. La datasfera, stimata a 163 zettabyte entro il 2025, è invisibile a noi utenti, anche se i nostri comportamenti ci scrivono e il testo della datasfera penetra dentro ognuno di noi.

Il fatto di concepire la posizione dell’umanità come contenuto in tre ambienti -- biosfera e antroposfera e datasfera -- ci permette di capire la portata rivoluzionaria del trasferimento dell’azione umana nel ciberspazio, nonché il pericolo che ci spiega Zuboff (la perdita di controllo sul nostro comportamento). I tre ambienti corrispondo in termini di proprietà:

  • al controllo dei mezzi di riproduzione nel primo ambiente, la specie umana nella natura che opera la hybris (violenza) sulle piante ibride e controlla il bestiame;
  • al controllo dei mezzi di produzione, la formula marxiana che descrive il vecchio capitalismo del secondo ambiente;
  • al controllo dei mezzi di conduzione, con tutto il dibattito spostato nel ciberspazio e, cosa più grave, il nostro comportamento determinato dalla datasfera.

I tre ambienti corrispondono inoltre alla distinzione operata da Hannah Arendt tra labor, work e action. Sono tre tipi di lavoro: quello biologicamente necessario dell’uomo nella natura, il lavoro produttivo che ci serve nell’ambiente costruito dove viviamo e il lavoro mentale della vita sociale.

La sostanza del terzo ambiente è il codice, che è allo stesso tempo sia il contenuto sia la forma del ciberspazio. Nei contesti umani precedenti, l’analogo del codice si trova nelle lingue naturali e nelle leggi. Le lingue risultano dal comportamento delle persone ma sfuggono dal controllo umano. Le leggi sono prodotte consapevolmente e controllano noi. Il codice informatico del terzo ambiente fa entrambe le cose. Metto un collegamento al post su Huffington di un famoso cultore inglese dello sguardo complessivo (poi dobbiamo chiedere a Pino se questo autore Lent è tra coloro che lui considera «apocalittici»).

Ma a chi porge uno sguardo complessivo arriva un segnale molto positivo. Noi animali sociali abbiamo compiuto un madornale errore: la consegna in mano alle aziende giganti delle rete del nostro comportamento. Assistiamo a una crescente consapevolezza dell’errore. Mediamente esce ogni giorno sul New York Times un articolo o un corsivo che lancia l’appello alla resistenza contro questo furto. Ma il problema è che spesso gli autori applicano le logiche del secondo ambiente alla soluzione del problema che stiamo vivendo nel terzo. Un esempio è il pezzo d’opinione apparsa in prima pagina nell’edizione europea recentemente nel quale un premio Nobel per l’economia scrive criticando la proposta di Elizabeth Warren di dividere Facebook. Sia la candidata alla presidenza degli Stati Uniti sia l’economista dimostrano di aver capito che esiste un problema ma poi vogliano applicare al terzo ambiente una soluzione adeguata al secondo. (Collego al pezzo.)

Mi sembra più utile il richiamo ai princìpi di Papa Francesco del 2019-05-07 nella Messa a Skopje. Ci mette in guardia contro la superficialità umana e la ristrettezza di veduta dicendo che:

“Ci siamo abituati a mangiare il pane duro della disinformazione e siamo finiti prigionieri del discredito, delle etichette e dell’infamia; abbiamo creduto che il conformismo avrebbe saziato la nostra sete e abbiamo finito per abbeverarci di indifferenza e di insensibilità; ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà.”

E questo non è che la punta dell’iceberg. Ma se leader generici dicono queste cose c’è da sperare che la gente inizierà ad ascoltare i veri filosofi del ciberspazio come Zuboff.

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