Il caso del Berchet di Milano: «Non diamo meno di 4»

Per me i voti non dovrebbero neanche esistere.

Basterebbe: insufficiente, sufficiente, buono (e, forse, ottimo).

Non sono d'accordo con quello che dice il preside del Berchet. Io sono uno studente e ritengo che la scuola oggi è eccessivamente buonista, sia come voti, sia come rispetto delle regole di istituto. La scuola è la più importante prevenzione contro la cirminalità (di ogni genere). A scuola gli insegnanti devono essere ligi alle regole e far capire ad uno studente che quando non ha studiato, non ha studiato. Se le regole sono troppo severe non si tengono per poi non rispettarle, al massimo le si rende meno severe.

Dare un 4 anche quando uno si merita un 2 insegna allo studente che tanto la scuola ti vuole promuovere, che tanto puoi non studiare ma il "sistema" è buono e gentile, così quando il ragazzo diventerà grande avrà imparato che può buttare la lattina per terra tanto anche se ti meriteresti una multa nessuno te la dà, perché cosa vuoi che sia una lattina per terra? Non siamo troppo severi. Successivamente a lungo andare le lattina per terra diventano 10 000 euro di tasse evase, o una rapina in un negozio, e poi ci lamentiamo della criminalità. Tutto parte dalla scuola!

I voti in pagella sotto il quattro una sconfitta
per chi insegna

DALLA PARTE DEL CITTADINO

I voti in pagella sotto il quattro una sconfitta per chi insegna

Gentile signora Bossi Fedrigotti, sono madre di due figli liceali e insegno in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Monza Brianza. Da quando il più grande, che ora frequenta l'ultimo anno del liceo classico, ha iniziato il percorso della scuola superiore, ho costantemente avuto occasione di riflettere sul sistema di valutazione nei licei pubblici. Ringrazio il preside Pessina per aver avuto il coraggio di intervenire sul tema scottante della valutazione. Mi trovo in perfetto accordo con il suo pensiero, proprio per aver vissuto il dramma del vero e proprio «annientamento» dell'autostima, a causa di docenti il cui interesse primario pare essere la media aritmetica. Pochi si fanno coinvolgere dalla passione educativa, che pone la relazione con lo studente come punto di partenza dell'apprendimento. Così, tutto si riduce a mero calcolo matematico che conduce lo studente più debole alla demotivazione. Rispetto ad alcuni anni fa, il processo di crescita dei ragazzi dei primi anni della scuola superiore appare più complesso; molti non riescono a superare l'umiliazione dei voti estremamente negativi e manifestano disturbi di diverso genere. Da insegnante posso affermare che diverse famiglie vivono questo tipo di esperienza. Ritengo che la proposta di non dare voti inferiori al 4 sia un piccolo passo verso una mentalità in cui il voto non sia considerato come punizione, bensì come indicatore di un metodo di lavoro che richiede di essere perfezionato gradualmente. Lo studente avrà così modo di capire sia quale metodo di studio mettere in atto sia se dover dedicare maggior tempo allo studio e, soprattutto, capire che considerare gli errori è il modo migliore per non ripeterli.
Paola S.

Devo dire che la mia prima reazione alla proposta del preside Pessina è stato di domandarmi: e sarebbe questo il ritorno alla meritocrazia? Poi, però ci ho ripensato, e la sua lettera — di madre e di insegnante— mi aiuta a farlo. Non basta forse un quattro per indicare una grave insufficienza nella materia? C'è bisogno di specificare, con quel certo sadismo insito a un tre, a un due o addirittura a un uno, il livello di questa insufficienza? Umiliazione dello studente a parte, hanno, quei voti, davvero un senso nella sua valutazione scolastica? Non fanno forse pensare, a volte, a un segnale di esasperazione e impotenza da parte dell'insegnante? E può mai un alunno, bollato con un due in pagella, magari in qualche materia principale, sperare di risalire alla sufficienza nel tempo di un quadrimestre? Difficilmente. Con un quattro invece sì e sappiamo che la speranza qualche miracolo riesce a farlo.

Isabella Bossi Fedrigotti

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SCUOLA/ Una prof: anche dare un 3 aiuta i giovani a diventare uomini

Federica Mazzoni

lunedì 23 aprile 2012

Cosa vuol dire valutare? Questa domanda, che di tanto in tanto riappare sui giornali e non solo a proposito dei voti, è all’origine del mestiere di insegnante che faccio da venticinque anni.

In questo arco di tempo i ragazzi sono cambiati, sono più fragili e le famiglie stesse in molti casi sono in difficoltà rispetto all’insuccesso dei figli: sono sempre più disarmate (e non solo rispetto alla scuola).

Ma la risposta alla domanda che ho posto all’inizio non è cambiata nel corso di questi anni. Valutare significa educare, cioè accompagnare i ragazzi nel percorso di formazione che li porta a diventare adulti, a scoprire i propri talenti.

Dentro questo percorso le verifiche e i voti sono solo una tappa, certamente importante e fondamentale, poichè segnano il raggiungimento di obiettivi, i punti di lavoro, le carenze, ma assegnare un punteggio non è valutare.

Se è chiara questa differenza e se i ragazzi sentono che l’insegnante è un loro alleato in questo cammino che hanno intrapreso, un maestro nel senso etimologico del termine (magis alter: il più grande tra i due), l’attribuzione dei voti non è più vissuta come un giudizio sul loro valore e sulla loro persona.

La chiarezza sul significato dei voti è fondamentale nel processo educativo: l’eccessivo buonismo è dannoso tanto quanto un rigorismo fine a se stesso.

Nel primo caso si impedisce una correzione reale, si impedisce che il ragazzo si metta al lavoro e provi a capire i passi che deve fare per affrontare le difficoltà, rimandando ad un altro tempo una reale presa di coscienza dei suoi problemi (quando arriverà all’università o cercherà un lavoro e, forse, sarà troppo tardi); nel secondo caso si scarica sul ragazzo il problema del suo insuccesso, lavandosene le mani, ci si nasconde dietro il rigore di un voto che, anziché misurare una prova, diventa un giudizio di valore sulla persona.

Nella mia scuola già da molti anni abbiamo stabilito di non attribuire alle prove di verifica orali e scritte una valutazione inferiore al 3, partendo da considerazioni molto vicine a quelle da cui ha preso le mosse l’intervento sul Corriere della Sera di Innocente Pessina, preside del Berchet di Milano. Tale scelta si è rivelata ragionevole in quanto il 3 esprime con grande chiarezza un livello di gravissima insufficienza senza dover attribuire voti inferiori. La chiarezza è un presupposto fondamentale per mettere al lavoro i ragazzi, ma da sola non basta: occorre un adulto che indichi quali passi fare per cominciare a superare le difficoltà.

L’insegnamento è un mestiere difficile, perché chiede un amore all’altro come unica strada che permette di valutare veramente. Io, come docente, posso promuovere, bocciare o indirizzare un ragazzo ad un corso di studi differente assumendo la responsabilità che questa decisione comporta, solo se amo il suo bene e sono preoccupato che trovi la strada che gli permette di realizzare pienamente le sua umanità attraversi i talenti che ha. Senza questo orizzonte insegnare diventa un lavoro frustrante e alla lunga la nostra delusione si sfoga sui nostri studenti. Mentre aiutare dei ragazzi a diventare uomini e donne è il mestiere più bello del mondo e che, anche se non sempre riconosciuto in modo adeguato, non cambierei con nessun altro.

Vai all'articolo del "il sussidiario.net"

No ma non è stato il brutto voto a causare quegli atti disgraziati. Il brutto voto sarà stato sicuramente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, i giornalisti amano semplificare troppo le notizie ma non raccontano la situazione famigliare e il contesto in cui vivevano queri ragazzi.