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Inviato da avatar Philip Grew il 06-07-2023 alle 18:39

Hai fatto bene, Giulio, ad allegare quel pezzo di Quintarelli su Repubblica. È un po' che non leggo Stefano qui in rete ma forse se commentiamo il suo articolo vorrà rispondere, visto che è partecipaMino ;-). Tra gli americani osservatori della tecnologia il nostro buon Quintarelli è stato molto citato qualche mese fa (insieme all'informatico Giovanni Semeraro) quando gli esperti cercavano di spiegare alla gente come mai tutti parlavano di quelli che parlavano con ChatGPT. Ovviamente gli esperti facevano un sacco di fatica a far capire cosa sia la I.A. a coloro che si sforzano di ignorare la questione sin dal 2017, momento di svolta.

Alla radio c'erano persino dei linguisti americani che spiegavano il doppio senso di "salame" in italiano (che in inglese si scrive "salami" al singolare non-numerabile naturalmente come "zucchini" o "linguini") poiché in inglese ha il significato di insaccato, cosa commestibile non-vegetariana, ma non l'accezione due del Wikizionario, quel Mario esemplare che si fa raggirare diventando esempio calzante di come viene accolta la I.A. dalla gente. Infatti, la I.A. supera il test di Turing non per le sue virtù bensì per quanto noi umani boccaloni antropomorfizziamo la macchina che interagisce con noi. "Salami" è quindi acronimo o backronym di Systematic Approaches to Learning Algorithms and Machine Inferences inventato da Quintarelli per scopi didattici e divulgativi, dato che il termine "intelligenza artificiale" inserisce già pregiudizi nel discorso.

È chiaro che noi a scuola siamo chiamati a combattere l'ignoranza che rende pericolo ogni progresso tecnologico. Forse in Italia potremo partire proprio dall'esempio di buona divulgazione offerto dall'azione quintarelliana, con il beneficio di lavorare una volta tanto dai testi in lingua originale anziché da quelle fetide traduzioni che impediscono una corretta comprensione di studiosi stranieri come la Zuboff. Lo stesso Stefano ce lo fa capire in un'intervista forse un po' datata: «non basta che la nuova tecnologia venga capita da poche persone, occorre che la capiscano in tanti» che ciononostante dovrebb'essere letto da ogni docente.

>Mi rincuorai ad apprendere che un gruppo di studenti si era organizzato sua sponte per andar da Via Festa del Perdono a Bologna per sentir parlare l'autore di Capitalismo Immateriale. Ma dispero quando un collega ci organizza per sentire degli esperti che parlano del ruolo della I.A. nella didattica e ci presentiamo in cinque da un collegio di 180. Capisco che chi deve dedicarsi a 18 ore di cattedra non potrà mai aver tempo per invogliarsi a leggere un libro intero come quello, ma al posto di tanti incontri amministrativi sulle valutazioni o di "formazione" obbligatoria (però online, così puoi stirare mentre "ascolti") forse si doveva esigere almeno un quarto d'ora di lettura sul sito unipd.it. Avessimo letto quel pezzo del 2020, anche nel 2021, forse saremmo stati meno confusi dal cosiddetto "arrivo" di ChatGPT nel 2022. Peccato che nel 2020 alla pubblicazione del libro Intelligenza Artificiale troppi insegnanti non avessero ancora di quello uscito nel 2019.

Non voglio scrivere un panegirico a Stefano. Non mi trovo d'accordo con lui su un sacco di cose. Dico solo che è l'esempio di un tipo di divulgatore che troppo spesso manca a scuola, manca sui giornali, specialmente su argomenti attinenti alla società digitale. (Ma confesso di sentirmi orgoglioso di essere italiano quando lo viene citato alla radio americana.) Quando non mi ci trovo nel pensiero quintarelliano gioisco tuttavia dell'essere «esposti al pensiero di chi non la pensa come noi». Impariamo anche dal suo metodo paremiologico. Quando nell'intervista il fondatore di I.NET gira la frittata spiegando come l'editore abbia bocciato il titolo alternativo riferito al proverbio troviamo un ottimo esempio di come fare divulgazione scientifica e come usare ciò che è noto al discente per ampliare il discorso. E tutti capiamo la differenza tra la macchina che segue le istruzioni e quella che rileva delle correlazioni sperando nel bel tempo all'indomani.

La scuola dunque deve svegliarsi sulla I.A. e sulle tecnologie dell'informazione in genere. Qui vedo un grosso pericolo: quello del mito di inevitabilità, che può alimentare il desiderio naturale che abbiamo noi insegnanti di gestire il cambiamento ignorandolo. La forma assunta da ogni nuova tecnologia è funzione della forte componente ideologica intrinseca espressa in come si manifesta quel progresso tecnologico. Gli strumenti che usiamo (e che ci usano) contengono l'ideologia.

Ed è su questo che vedo il pericolo della I.A. Quando Attilio scrive «Penso che l'approccio all'Intelligenza Artificiale (I.A.) sia inevitabile per la scuola» o Stefano scrive «gli Llm non spariranno e dobbiamo imparare a conviverci» in un paragone geniale con le calcolatrici a scuola oppure dice «occorre che la capiscano in tanti, altrimenti ci sono ritrosie», di «occuparcene ma non preoccuparcene» io sento un campanello di allarme. Ritrosie? Chi possiede il futuro? Non stiamo forse cadendo in quella terribile mancanza di fantasia incapsulata in modo eloquente dalla Thatcher? TINA? Non c'è alternativa alcuna!? Rifiutiamo l'ideologia dell'inevitabilità! Per chi riesce a leggerlo, allego un significativo intervento di Evgeny Morozov che dice questo sul Times.

- ph20230706

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